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  29/04/2024 - 07:44

 

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Marco Vichi
L'inquilino
Parma, Guanda, 1999

 




                     di Fulvio Paloscia


Marco Vichi, Morte a Firenze, 2009
Marco Vichi, Per nessun motivo, 2008
Marco Vichi, Nero di Luna, 2007
Marco Vichi, Parole e musica, 2005
Marco Vichi, Donne Donne, 2000, una critica al maschile
Marco Vichi, Donne Donne, 2000, una critica al femminile
Marco Vichi, L'inquilino, 1999


Nemiciamici, Carlo e Fred. Carlo che vive facendo traduzioni, quindi con l'ossessione di come mettere insieme il pranzo con la cena. Carlo che con le donne è sentimentale è impacciato, che s'incavola con facilità e tra le quattro pareti di casa sua vive impermeabilizzato da un mondaccio scontroso. Fred lo sbruffone, quello sicuro di sé, talmente vitale da essere insopportabile, che con le donne va a colpo sicuro e che prende la vita per il verso giusto. Tra i due c'è uno spazio vitale troppo piccolo per contenerli entrambi. Fred è infatti l'inquilino di Carlo che, strozzato dai conti da pagare, decide di affittargli una stanza. E Fred gli piomba in casa con una sicurezza gagliarda e minatoria; entra nella sua vita con la leggerezza di un panzer, fa a pezzi la sua intimità domestica con la mannaia ma anche con la sottile, stillicida arma del sospetto. Al suo romanzo d'esordio "L'Inquilino ", appena pubblicato da Guanda (ed è già un caso: Piero Pelù ha acquistato i diritti per farne un film), lo scrittore quarantaduenne fiorentino Marco Vichi ha messo un finale a sorpresa, imprevisto ma chiaro: il crinale tra l'odio e l'invidia è labilissimo perché "l'uomo non è mai ciò che sembra", scrive Fred in un biglietto a Carlo quando Vichi mette la parola fine a uno di quei romanzi che non si squaglia mai ma che corre veloce sul filo della narrazione pura, con una chiarezza, un nitore che ricorda Pratolini , ha detto qualche critico, anche perché mette in scena una Firenze (soprattutto periferica, Campo di Marte e dintorni) che non gioca a fare la bella statuina sul banchetto di souvenir, ma che ama il grottesco e si popola di barboni nobili e puzzolenti, di vicine nutrite a pane e pregiudizi, di ortolani zoppi, di passanti accigliati e scostanti, di ragazzine sessualmente concilianti, prostitute tristi e provocanti, di serial killer che strangolano vecchiette: "Col tempo - racconta Vichi - ho cominciato a pensare che la magia di Firenze sia solo il frutto di supposizioni e di speranze. La mia Firenze, quindi, è una città piccola e grande insieme, coi difetti della metropoli e del paese di provincia: nei fiorentini sento una specie di compiacimento sotterraneo della propria decadenza, sovrastato da un orgoglio di facciata che prende energia dal solito Magnifico Passato . Ma il fiorentino ha una personalità complessa, difficile da vivere per lui stesso. La cosa che più mi stupisce è la somiglianza tra individui, a volte quasi una maschera da commedia dell'arte come se la città fosse più forte delle persone, e dunque fosse capace di plasmare e uniformare i comportamenti. E' una città psicologicamente violenta, dura, che obbliga a difendersi". E che pesa come un macigno su Carlo, su Fred e anche sulle comparse di questo romanzo dove tutti vivono come cani sciolti, separati in branco: "Più di impossibilità (così terribile), credo che sia meglio parlare di difficoltà dei rapporti umani, che è già abbastanza tragico. Vivere con gli altri è un'arte che si impara, un tirocinio perenne che ci svela a noi stessi. Sono convinto che gran parte delle difficoltà che dominano le relazioni tra persone siano dettate dall'insoddisfazione, dalla frustrazione. Se questo è vero, cercare la propria pace può essere quasi un dovere morale, un imperativo categorico. Chi è soddisfatto della propria vita, sa stare meglio con gli altri: perché riesce a vederli". In fin dei conti, più che l'intimità, Carlo vede stuprata la propria sacrosanta solitudine accettando Fred in un appartamento che assomiglia molto di più a una rassicurante tana alla quale Carlo si aggrappa con una necessità quasi animale di dominio del proprio territorio: "La solitudine è il tema centrale del mio romanzo: solitudine che significa non essere capiti e non capire gli altri. Non mi sento solo quando scopro una persona con cui condividere uno spazio interiore, e in quel caso non importa che quella persona sia lontana o vicina fisicamente. Basta che esista". La lista dei grandi amori letterari di Vichi mette pace tra russi e americani e quindi include Lermontov , Dostoevskij , Cechov, Bulgakov, Fante, Salinger ("e la musica di Franz Schubert: sono tutti autori che mi hanno spinto a cercare il massimo della semplicità espressiva e dai quali sto cercando di imparare cosa 'non si deve' scrivere"), ma anche Lucarelli e Camilleri . "La primissima volta che ho avuto voglia di scrivere - aggiunge - è stato a dieci anni quando mio padre, gran lettore di gialli, mi diede 'Il mago' di Wallace , che divorai in poco tempo. Mi venne subito voglia di scrivere, ma non andai oltre la prima pagina. Negli anni successivi di tanto in tanto placavo qualche dolore sentimentale scrivendo poesiole orrende e lettere che non spedivo mai. Poi a ventitre anni, dopo una crisi formidabile, iniziai a leggere tantissimo e a scrivere racconti. A 24 la decisione: voglio fare lo scrittore; da lì piccole cose pubblicate su riviste, testi teatrali per Franco di Francescantonio". Lucarelli, Camilleri , Wallace: con la sua tensione comica e affilata, è un errore considerare 'L'Inquilino' un giallo? "Non amo le etichette, e la suspense del libro non è una scelta tecnica: mi ci sono trovato dentro la storia senza rendermene conto, inseguendo un desiderio forte di addentrarmi in quella avventura. A posteriori, riconosco al mio romanzo due piani di suspense: uno classico -omicidio, sospetti, ricerca del colpevole -, l'altro psicologico: chi vincerà tra Carlo e Fred? Quando avverrà la resa dei conti?". Alla soluzione si arriva dritti e veloci come siluri.

Marco Vichi, L'inquilino, Parma, Guanda, 1999

Voto 7 

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