Rosario Palazzolo, Concetto al buio, Edizioni Perdisia, 2007
Rosario Palazzolo, L'ammazzatore, Edizioni Perdisia, 2007
Al buio, nel buio, nella penombra dove senti soltanto le parole che scorrono come un flusso nella testa, i pensieri prendono corpo, arrovellandosi, perdendo lucidità,
aggrovigliandosi senza punteggiatura e sgrammaticati, visto che intorno di carne pensante non ce n’è più, s’è squagliata, le filosofie prendono forma che sembra vederle con le loro linee, i concetti pare che parlino con bocca, nasi, mani. Nero è il tugurio da Io non ho paura,
nera è la storia dove ci spinge, ci ficca a forza Rosario Palazzolo con la sua lingua
sporca, spuria, bastarda, liquida come olio che non riesci a lavare via. Un
lessico che sembra dialetto, ma dialetto non è, ma è toccato da onomatopie, da suoni gutturali come se provenissero da una tomba, una tana, una caverna, vera e metaforica, dove siamo
costretti, noi assieme al protagonista. Personaggio che poi, nello scorrere, si
moltiplica, aumenta, si fa, si somma, alimentando il senso di colpa, a catena,
come una valanga che più scende più prende velocità e travolge violenta e sincopata e tutto trancia e non rimane traccia. Gesù
in terra senza nessuno a piangerli ai piedi della croce. Storie di tutti i giorni, si direbbe. Storie di aggressioni lente, sottese, piccole come può esserlo una goccia cinese, soprusi che a parlarne ti si chiude la gola ed infatti non ne parli, lingue che si attorcigliano, realtà
che diventa incubo fino a convincersi che è stato un sogno, un brutto sogno, ma
sempre un sogno, generato da una mente instabile, malata, la tua. E’ questo che
vuole l’aguzzino, addirittura con una divisa addosso, di quelle che dovrebbero
darti fiducia e conforto, benedizione e protezione, ascolto ed accoglienza. Il
crimine è contro la fiducia, contro l’umanità, contro l’indifferenza. Come se
il lupo facesse il guardiano dell’ovile e la pecorella smarrita niente potesse
fare se non attendere il suo giorno o vivere nell’angoscia. Chi controlla il controllore. “Concetto
al buio”, secondo libro dopo “L’ammazzatore”, del drammaturgo di “Ouminicch”
o “’A cirimonia”, ci conduce nella foschia, nel bosco
invischiato di spine e pruni, dove gli orchi sono di casa e né le gambe giovani,
né la dialettica né la furbizia serviranno a salvarsi. Salvezza che non arriva,
che non può arrivare se non con un bagno di sangue purificatore sopra l’altare
del silenzio, dell’omertà, del meglio non dire sennò che cosa penserà la gente.
Non svegliare il can che dorme. Lecca la mano del padrone che ti picchia. Tre
storie che poi sono una sola. Storie di sofferenze infinite, di buchi dentro i
quali marcire per espiare delitti e crimini altrui, da dove uscirne soltanto con
un gesto estremo ed ultimo, atto d’accusa per chi
rimane, lampante se la verità non facesse così male da non poter essere
accettata. Famiglie disgregate in un Sud che può
essere ampliato senza confini geografici, stanze troppo strette dove tutti
vedono, tutti sanno ma nessuno prende provvedimenti, nessuno si schiera a
fianco di colui che palesemente è il più debole. Deboli con i forti e forti con i deboli. “Concetto al buio” è tragico e
drammatico, perché ci tocca tutti, tocca la nostra
indifferenza e superficialità, il nostro ponziopilatismo,
il non-esserci, non-sentire le urla, le lacrime, le grida, dalla porta accanto,
negli occhi bassi su un autobus, confusi dietro i purtroppo, celati dietro gli
ormai. Non c’è più tempo per nascondersi dietro un paravento. Anche le dita
sono finite. La realtà strazia, la complicità ammanta. Sotto la polvere il fuoco s’è spento. Prometeo l’abbiamo ammazzato.
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