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  27/04/2024 - 11:31

 

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Jonathan Coe
La banda dei brocchi
Milano, Feltrinelli, 2002; pp. 380
Un tuffo in un passato senza Mtv, cellulari, fax e Playstation...

 




                     di Paolo Boschi


Circolo chiuso
La banda dei brocchi
La casa del sonno
L'amore non guasta
La famiglia Winshaw


Pochi romanzi come La banda dei brocchi sono riusciti a ricreare vividamente un periodo storico, nel dettaglio i controversi anni Settanta. La forza dell’ultima prova di Jonathan Coe, sette romanzi all’attivo finora tra cui La famiglia Winshaw e La casa del sonno, non è riposta nella perfezione strutturale dell’opera, né nell’impeccabile stile di uno dei migliori talenti letterari contemporanei, ma nella varietà del mosaico narrativo allestito per l’occasione. Ambientato a Birmingham, città natale dell’autore, classe 1961, il romanzo racconta le avventure di quattro studenti del King William, un liceo d’élite che rappresenta il viadotto d’ingresso per Oxford e Cambridge: sono Benjamin Trotter (Minus Habens il suo soprannome), Doug Anderton, Philip Chase e Harding, spesso chiamati con i loro cognomi, come a scuola, hanno grandi sogni e costituiscono il sogno di una vita migliore per i loro genitori, classici esponenti della working class britannica. La banda dei brocchi il titolo originale richiama una canzone della band progressive Hatfield & The North (piuttosto nota nei Settanta, almeno in Inghilterra) – è appunto costruita su quattro punti di vista principali che s’incrociano e che talvolta finiscono per chiarire a vicenda le rispettive falle logiche lasciate ad hoc negli orditi delle sotto-trame, alternando creazioni letterarie in serie: recensioni, annunci per cuori solitari, stralci di canzoni, articoli tratti dal giornalino della scuola (“La Bacheca”), sprazzi diaristici, provocazioni letterarie, perfino un conclusivo pezzo di bravura sull’esempio di Joyce. C’è Benjamin, che sogna di diventare scrittore o compositore (o entrambi, chissà), scrive poesie e compone sinfonie per la splendida Cicely, il suo inarrivabile oggetto d’amore. C’è Doug Anderton, figlio di un sindacalista della fabbrica inglese per eccellenza, la British Leyland, che punta sul giornalismo musicale. C’è Philip Chase, intento a formare con Benjamin una band alternativa di successo (da chiamarsi Minas Tirtih o il Bastone di Gandalf) ma snervato dalle retoriche avances con le quali il suo docente di storia dell’arte va intrigando sua madre. E poi c’è Harding, il clown della scuola, dotato di indomita forza satirica rivolta contro chiunque gli capiti a tiro, autore di impagabili travestimenti reazionari. Il punto di vista privilegiato all’opera ne La banda dei brocchi è senz’altro quello di Benjamin Trotter, personaggio dietro il quale Coe ha nascosto non pochi tratti autobiografici – l’autore britannico è stato infatti giornalista e musicista rock prima di votarsi integralmente alla scrittura – ed a cui sono demandate le gemme narrative del romanzo: la spiazzante scena à rebours in cui veniamo a conoscenza dell’attentato di cui è rimasta vittima sua sorella, o la fulminea conversione religiosa del ragazzo per aver evitato l’umiliazione di nuotare nudo nella piscina della scuola, o l’incantato materializzarsi della storia d’amore con Cicely o infine il notevole stream of consciousness in cui il ragazzo stringe la sua felicità sentimentale nel dilatarsi di una sorsata di birra. Le gesta di questo club degli imbranati sono incorniciate attraverso il filtro della memoria: nella Berlino del 2003 i figli di due dei protagonisti si ritrovano per caso e per caso decidono di viaggiare a ritroso in un tempo in cui non c’erano Mtv, cellulari, fax o Playstation, un tempo in cui Il signore degli anelli non era ancora finito sul grande schermo, in cui l’ambiente musicale era in fermento, l’Ira tragicamente ai massimi storici ed il sindacato in grado di fermare una nazione. Coe ci informa anche che ci sarà un seguito, intitolato The closed circle: attendiamo fiduciosi.

Jonathan Coe, La banda dei brocchi, Milano, Feltrinelli, 2002; pp. 380

Voto 8½ 

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