The Joshua Tree
Dimmi chi erano gli U2
Pop
The best of 1980-1990
All that you can't leave behind
The best of 1990-2000
Nel
panorama musicale, scenario privilegiato del consumo di massa, uno dei
postulati base è che i miti planetari spesso finiscono per fagocitare se stessi
alla velocità con cui hanno raggiunto la cima. Con qualche piacevole eccezione,
come gli U2, che sono il gruppo rock
per definizione almeno dalla pubblicazione, datata 1987, di The Joshua
Tree. Prima il quartetto di
Dublino era diventato un gruppo di
culto con una manciata di album che proponevano un rock epico e
foriero di messaggi, impegno, denuncia – Boy, October,
War –, dimostrato un’esplosiva energia dal vivo nel live Under
a blood red sky, e cominciato ad affinare il proprio suono affidandosi
alle cure di Brian Eno – guru indiscusso della musica rock contemporanea,
convinto da Bono dopo lungo corteggiamento – a partire da Unforgettable
fire, uscito nel 1985. La messa al punto della band coordinò in un felice equilibrio
l’anima sonora del gruppo (la chitarra di The Edge) e il cuore creativo (i
testi di Bono e, ovviamente, la sua incredibile voce). Il tutto si focalizzò
magicamente in The Joshua Tree, probabilmente l’album più
significativo degli anni Ottanta, il disco con cui gli U2 sfondarono in America e, conseguentemente,
in tutto il mondo, diventando la rock band di fine secolo per
definizione. Le undici tracce di The Joshua Tree nel complesso
trasmettono l’impressione di un’alchimia difficilmente ripetibile di musica e
messaggi: Leitmotiv privilegiato della tracklist è l’America, o
meglio la percezione europea dell’America nel suo contraddittorio mosaico di
luci ed ombre. Questo sforzo di sintesi stratificata si condensa in un disco dove
tutto funziona e in cui ogni tessera finisce per intarsiarsi al posto giusto:
un titolo evocativo che rimanda agli alberi dei deserti del Sud-Ovest
americano, capaci di crescere nonostante la carenza d’acqua; un attacco
programmatico e musicalmente saturo come Where the streets have no name
cui corrisponde, nove tracce più in là, una conclusione distensiva come Mothers
of the disappeared, dolcissima, quasi ecclesiale nella solennità del suo
crescendo. In mezzo nove tracce inanellate come le perle di una collana, nove
canzoni che esaltano e fondono misteriosamente i talenti dei quattro di Dublino: il gioioso
senso di ricerca di I still haven’t found what I’m looking for, la
malinconia densa ed ombrosa di With or without you – una ballata dove il
basso di Clayton si supera –, le cupe spezzature di Bullet the blue sky
– con Larry Mullen Jr. at his best –, l’insostenibile dilatazione
acustica di Running to stand still, quindi una ballata d’impatto come Red
hill mining town, che costituisce un perfetto dittico con la successiva
saturazione chitarristica di In God’s country, quindi il folk rock
di Trip through your wires, che pare una rilettura del periodo Nashville
di Bob Dylan, e ancora la delicatezza di One tre hill, ed infine Exit,
un brano che emerge dal silenzio e richiama With or without you da una
prospettiva più oscura. L’anno successivo l’arte musicale degli U2 fu immortalata su celluloide in Rattle
and hum, che condensò molte esibizioni live dei nostri eroi (con
relativo album dalle sonorità ancora più americane), ma il 1987 fu senza dubbio
l’anno di grazia del gruppo irlandese.
U2, The Joshua Tree [Island 1987]
Voto
8½