Ormai da qualche tempo il grande Gordon Sumner in arte Sting, classe 1951, usa incidere per la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon, impegnandosi magari nelle ardite riscoperte del vetusto canzoniere di John Dowland o del materiale folk sull’inverno e dintorni. L’unica eccezione in termini pop dai tempi di Sacred Love, uscito nel 2003, è stata l’apprezzatissima e recente reunion dei Police con i fidi compari di un tempo, che ha poi proiettato Sting, Stewart Copeland e Andy Summers nell’immancabile tour mondiale. Con Symphonicities
– notevole gioco di parole con l’atto finale dei Police, Synchronicity, del 1983 – Sting ha cercato la giuntura tra le sue due anime, riarrangiando dodici brani del suo vasto repertorio dal 1977 in qua con l’apporto della Royal Philharmonic Orchestra (cui è seguita
l’ovvia tournée). L’effetto d’insieme talvolta è spiazzante, come nell’apripista Next To You (una delle cose più punk che l’autore abbia mai composto), ma nell’insieme le canzoni si riconoscono (sentire in merito Englishman in New York) e, anzi, nell’interpretazione orchestrale acquistano talvolta nuove sfumature,
come nel caso di Every Little Thing
She Does Is Magic, che diventa ancora più sognante dell’originale. Per il resto
l’album brilla anche per certe scelte anticonvenzionali a scapito di
cavalli di battaglia più rodati, come la versione sinfonico-tribale
di I Hung My Head, o l’emozionante You will be my ain true love, già duetto con Alison Krauss nella soundtrack di Ritorno a Cold mountain e qui interpretato in chiave country-celtica con Jo Lawry, o una versione di Roxanne meno nervosa dell’originale ma carica di nostalgia, o l’intensa (e rara) I burn for you, o una godibile rielaborazione della
jazzatissima She’s to good for me, prima di chiudere il discorso con
l’eterea malinconia di The Pirate’s Bride (altra scelta affatto scontata). Che dire? È un disco che si fa sentire
e cattura, ma è pur sempre una raccolta di variazioni sul tema…
Sting, Symphonicities [2010 Deutsche Grammophon]
Voto
7
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