Burn to shine
Diamonds on the inside
Give ‘till it’s gone
Avere fin dall’esordio un nume tutelare del calibro del mitico bluesman Robert
Johnson – si sussura che il suo leggendario talento chitarristico gli fosse
stato donato da un diavolo a un incrocio di strade, ovviamente in Mississippi –
come immediato termine di paragone non è mai stato un problema per Ben Harper, classe 1969, uno dei maggiori
virtuosisti della chitarra slide attualmente sulla scena. Ed è proprio on
stage che Harper non manca mai d’entusiasmare il gentile pubblico suonando
seduto la sua Weissbourn appoggiata in piano, una chitarra molto in voga negli
anni Trenta ed in cui il cantautore californiano ha cominciato ad affinarsi da
bambino per ritrovare quelle sonorità blues poi divenute il marchio di
fabbrica del suo già ragguardevole repertorio. Dall’esordio con Welcome
to cruel world nel 1993 fino al recente Burn to shine Ben
Harper si è conquistato uno zoccolo duro di fans, soprattutto Oltreoceano,
nella vecchia Europa, arricchendo
nel corso degli anni il naturale punto di riferimento del blues delle origini
con l’hard rock di Jimi Hendrix ed il reggae di Bob Marley. Non a
caso Diamonds on the inside risulta fin dal primo ascolto l’album
più complesso ed eterogeneo finora realizzato da Harper nella sua carriera:
oltre ai continui riferimenti al blues, all’hard rock ed al reggae,
nelle quattordici tracce complessive in scaletta si trovano spruzzatine di jazz,
un po’ di funk, perfino qualche goccia di folk miscelato a
canzone d’autore, come accade, giusto per esemplificare, nella magnifica When
she believes, una dolcissima scheggia d’immensità incisa su supporto Cd.
Proprio questa intensa ballad ci consente di allargare il discorso al sound
del disco nel suo complesso, un sound che ha acquistato nuovi elementi
mai utilizzati da Harper
in precedenza, come gli archi della sopracitata canzone, o come l’utilizzo di loop
elettronici o l’imponente presenza di tastiere. Ma passiamo ad esaminare
più in dettaglio Diamonds on the inside avvertendo subito che
siamo probabilmente davanti al più bel disco realizzato finora da Ben Harper, che è riuscito ad
esprimersi al meglio sia dal punto di vista musicale che sul fronte della
composizione: l’album prende avvio con il contagioso reggae di With
my own two hands, ingrana la marcia con il blues essenziale di
When it’s good, si dilata come un fiore che sboccia nella solare titletrack;
nella traccia successiva Harper scala di ritmo con l’ombrosa ballad Touch
from your lust, che costituisce un dittico con la sopracitata When she
believes, un brano destinato a rimanere topico nella produzione harperiana.
Costituiscono un dittico anche i brani seguenti, stavolta in direzione funk:
la ridente Brown eyed blues, più melangiata, e Bring the funk, un
funk decisamente più canonico. La seconda parte dell’album parte con Everything,
una ballad a pronta presa di sapore tipicamente West Coast e vagamente folk.
Più in direzione intimistica Amen omen, essenziale ed intensa, mentre in
Temporary remedy Harper riecheggia l’Hendrix elettrico, come pure
nell’ipercinetica So high so low. Nella coda di Diamonds on the
inside il cantautore e
chitarristica californiano pare voler voler chiudere il discorso con
intensa delicatezza: a ruota si susseguono la splendida Blessed to be a
witness, il magnifico canto ‘africaneggiante’ Picture of Jesus, ed
infine She’s only happy in the sun, un’eterea quisquilia che nelle corde
di Ben Harper
diventa una colomba che si libra leggera nel cielo contro il sole. Un album
imperdibile.
Ben Harper, Diamonds on the inside [Virgin 2003]
Voto
8+