Presentazione: primo reportage dalla mostra di Venezia 2008
Secondo reportage dalla mostra di Venezia 2008
Terzo reportage dalla mostra di Venezia 2008
Quarto reportage dalla mostra di Venezia 2008
Bilancio della mostra di Venezia 2008
In una edizione dove il leone veneziano, sembrava dato per arrugginito, se no
mortificato da una selezione di Cannes, davvero prorompente, si riscatta in
partenza con il nuovo film dei fratelli Coen, Burn after reading,
commedia noir che rimanda ad un caos, in cui gli americani vengono
rappresentati nei loro vizi e conformità sociale, vestiti da star in piena
forma, come Brad Pitt e George Clooney, abili
nel tratteggiare i loro personaggi e scherzando su i loro stereotipi
d’immagine, per rimarcare un disagio a stelle e strisce, che non da spiegazione
tra le risate amare di una realtà senza via d’uscita. Dopo il successo di un
film d’apertura che ci consegna la coppia dei fratelli Coen in piena
ispirazione artistica, si parte con il concorso internazionale. Jerichow di Christian
Petzold, si cala in nelle dinamiche di un noir di
maniera, incapace di consolidare le sorti narrative in cui un soldato congedato
dall’esercito in maniera disonorevole, si ritrova senza soldi e con una casa
materna da sostenere e finisce per lavorare per un turco, innamorandosi della
moglie Laura. Regia statica, senza nessuna espressività soggettiva nel
rielaborare un testo pieno di rimandi classici. Il ritorno di Takeshi Kitano, coincide
con la riproposizione di un contesto narrativo agevole nel raccontare il
percorso di Machisu, e della sua ostinata convinzione
di poter diventare un pittore di fama in Achilles and
the tortoise. La ricerca di una propria forma
pittorica, diventa per Manchisu, una
infinita riproposizione di fallimenti, liberando un profondo elogio per
la natura umana, spesse volte cieca nelle sue scelte, ma che nella rischiosa
impresa delle affermazione artistiche, libera una fallacità d’intenti ridente e
malinconica, chiudendo idealmente la trilogia di Kitano sul senso di essere
creatori d’immagine. Inju di Barbet
Schroeder, delude nel suo declinarsi misteriosamente tra realtà e finzione,
in un gioco di genere non supportato convincentemente da una messa in scena
salda. Fuori concorso, è apparso Shirin di Abbas Kiarostami, con un
film radicale nel seguire i volti dei spettatori in
una sala in Iran, seguendone le emozioni e i palpiti delle donne: animi
incalzanti di un paese in sommovimento e voglioso di cambiare la propria condizione.
Orizzonti, ha presentato l’interessante opera filippina Jay di Francis
Xavier Pasion, preso nello schiacciante potere mediatico della televisione,
pronto a speculare sulla morte e mettere in finzione i rapporti interni agli evvenimenti, innescando una circolarità che non da via di
scampo alla propria immagine di sé. Passando di nuovo al concorso, si è visto
The Burning Plain di Guillermo Arriaga, che segna il
suo debutto alla regia, con
due storie parallele, una ambientata nel passata e l’altra nel
presente, per un intreccio familiare sofferente nelle proprie colpe, tra amore
e redenzione. Peccato che la mano di Arriaga, sia decisamente priva di
qualsiasi innesco inventivo e sprofondi la sua pellicola in ovvietà e scelte
stilistiche deficitarie. Stessa sorte tocca a Plastic city di Yu Lik-wai, lotta tra bandi rivali sul mercato delle
contraffazioni delle merci nella San Paolo della
comunità asiatica, inerme nella resa, per una regia dormiente nel riproporre
scenari desueti, senza punti di svolta efficaci. Triste debutto italiano nel
concorso, con il suo primo film dei quattro con Il giorno perfetto di Ferzan Ozpetek, nel raccontare le
ultime ventiquattro ore di vita della coppia separata, Emma e Antonio e della
sorte dei loro due figli. Dramma intessuto, pieno di diversi incroci
esistenziali, dimostrando i limiti del cinema di Ozpetek, involuto nel
rappresentare il destino dei suoi personaggi, immersi in un mare di azioni e dialogi banali, al limite dell’autolesionismo. Il fuori
concorso ha messo a segno colpi significativi, con il rigore formale di un
Paolo Benvenuti in coppia alla regia con Paola Baroni per Puccini e la
fanciulla, consegnandoci un film di candido splendore linguistico, per seguire
a 35 rhums di Claire Denis, nel suo dipanarsi tra solitudini metropolitani e tocchi ansimanti di vita,
sottolineando la sua bravura innata per una piccola perla di regia; infine Vinyan di Fabrice
du Welz, horror intriso nelle turbe psichiche di un dolore materno, che
lascia spazio solo alla pazzia, sapientemente orchestrato fino alla fine.
Adesso ci attendono nei prossimi giorni, titoli incalzanti, e soprattutto il
valore, da dimostrare sul campo, delle pellicole italiane di Avati, Bechis e Corsicato.
Voto
6 ½