La rivelazione Norah Jones
Come away with me
Si
resta sempre un po’ dubbiosi dopo aver ascoltato per la prima volta un album
d’esordio dotato del livello qualitativo di Come away with me. A
garanzia dell’operazione ci sono i nomi dell’etichetta discografica
‘responsabile’ (la prestigiosa
Blue Note), del produttore (Arif Mardin) e dei guests di supporto
ma, alla fine, quello che resta impresso è l’indiscutibile talento, vocale e
pianistico, dimostrato dalla debuttante in questione. Nata a New York, classe
1979, Norah Jones si è presto
trasferita a Dallas, dove ha frequentato la Booker T. Washington High School
for the Performing and Visual Arts: ha cominciato a suonare il piano intorno ai
dieci anni e, prima di firmare per l’etichetta jazz Blue Note nel
2001, ha vinto per due anni il premio come miglior jazz vocalist e
suonato in un paio di gruppi. Prima di Come away with me Norah Jones ha
realizzato l’EP First sessions, la gran parte della cui scaletta è poi confluita nell’album di
debutto, composto di quattordici brani complessivi: in tutto il disco presenta
tre covers e ben undici brani originali, di cui due
sono opera della stessa Jones, mentre gli altri sono stati scritti a quattro
mani dal bassista Lee Alexander e dal chitarrista Jesse Harris, entrambi
appartenenti alla band che accompagna la giovane cantante. Come away with me è un disco che attinge a piene mani dalla
tradizione della musica popolare americana: non solo jazz, ma anche country, folk, rhythm'n'blues e blues. Il tutto mostrando
un notevole senso della misura: a differenza dei lavori della collega più
attiva sul fronte delle reinterpretazioni jazz, ovvero Diana Krall, Norah
Jones ha saputo limitarsi in tal senso ad un solo standard in senso stretto,
la conclusiva The nearness of you (di Carmichael/Washington) rivista per
voce e solo piano (davvero molto suggestiva), mentre le altre due covers sono la rivisitazione jazzata (delicata e notturna, davvero deliziosa)
di Cold cold heart, firmata da un mito del country come Hank
Williams, e la rilettura di Turn me on di J.D. Loudermilk, R&B di grande atmosfera, un vero tuffo nel passato. D’altra parte tutto il
disco è impressionante per la patina d’epoca che ne traspare: a partire
dall’apripista, l’indiscussa gemma dell’album, ovvero la splendida Don’t
know why, una canzone calda, avvolgente e sorprendentemente contagiosa fin
dal primo ascolto, seguita a ruota dalla ballata Seven years,
teneramente malinconica e dal retrogusto diaristico. Tutta la tracklist è un succedersi di liete
sorprese e citazioni piazzate con gusto, inanellate una dopo l’altra come perle
in una collana: il sapore folk della ballata Feelin’ the same way,
la notturna titletrack, l’intensa semplicità di Shoot the moon,
il country da spazi aperti di Lonestar, il
violino ed il basso che colorano l’atmosfera retrò di I’ve got to see
you again, la soffusa Painter song (all’aroma di Bacharach),
l’irresistibile R&B di One flight down, l’essenzialità
acustica di Nightingale ed infine la malinconia The long day is over (con
la chitarra di Bill Frisell).
che ci auguriamo di risentire sempre a questi livelli e per la quale
l’accostamento a Billie Holiday non sembra profano.