On how life is
The Id
The trouble with being myself
Sarà
davvero un problema essere come Macy Gray?
Lei, freak confessa, continua a dilettarsi ad ammaliare un sempre più
vasto pubblico con quella sua voce aggrovigliata, inusuale, particolarissima,
‘sporca’, unica, per dirla con un solo aggettivo. Il suo modo di cantare a
tratti quasi strascicato sembra fatto apposta per esprimere tutte le gradazioni
cromatiche della black music, dal soul al rhythm’n’blues,
passando tra schegge di funk e frammenti di hip hop, e sarebbe
davvero curioso ascoltarla alla prova con un blues di quelli davvero
insostenibili, o magari con un classico di jazz d’epoca, chissà – Macy
Gray d’altra parte va presa così, esattamente nel modo in cui lei decide di
mostrarsi al gentile pubblico –. Ma entriamo decisamente nel merito dei dodici
brani più ghost track conclusiva che costituiscono The trouble
with being myself, il terzo album in
carriera per Macy Gray: si comincia dalla contagiosa When I see you,
una canzone che comincia ad intrigare l’ascoltatore nel giro di un refrain
per non lasciarlo più. Si continua con If ain’t the money, in morbido
duetto con Pharoahe Monch, un brano che si dipana in modo molto sensuale tra funk
ed hip hop. Dopo aver accordato la propria ugula in chiave più
prettamente sperimentale, la Gray decide di sorprenderci con uno di quei soul
decisamente insostenibili sul fronte emotivo in cui la voce della cantante originaria
dell’Ohio si esalta volando sulle corde dei sentimenti, conducendo
l’immaginario dell’ascoltatore nella direzione in cui decide lei: stiamo
parlando ovviamente di She ain’t right for you, una ballata R’n’B con
tanto di organo Hammond in perfetto stile anni Sessanta. Altra traccia, nuova
esemplificazione di groove con Things that made me change, ballata
tra il confidenziale e l’intrigante, davvero molto contagiosa, che costituisce
un ideale trittico di variazioni sul tema con il brano precedente ed il
successivo Come together. A metà disco Macy Gray si ricorda
che i ritmi più accelerati la valorizzano molto e cambia marcia con She
don’t write songs about you. E subito dopo torna nuovamente al suo lato balladeer
con l’intensa Jesus for a day, che sembra sbocciata fuori da chissà
quale scrigno di gemme R’n’B perdute nel tempo. Mentre la scatenata ritmica
chicana di My fondest childhood memories, le digressioni protoinfantili
di Screamin’ e le divagazioni jazzate della conclusiva Every now and
then non sembrano lasciare tracce significative, è doveroso segnalare la
restante coda di The trouble with being myself, che propone due
piccole gemme: alludiamo alla deliziosa liquidità di Happiness ed
all’intensa emotività di Speechless. L’atteso terzo album della Gray per
certi versi costituisce la prova del nove dopo l’esplosivo (e tardivo) esordio
con On how life is e la convincente conferma del successivo The id: c’è
da aggiungere che Macy Gray è una cantante che si fa amare o finisce per
stancare, essendo prigioniera di una voce difficilmente ricollocabile ed avendo
già raggiunto al debutto livelli difficilmente ripetibili. Disco comunque
imperdibile.
Macy Gray, The trouble with being myself [Epic 2003]
Voto
7½