La mia generazione ha perso
Giorgio Gaber dal vivo
Io non mi sento italiano
Cantattore
per definizione, chansonnier di periferia, uomo di spettacolo completo,
ma soprattutto “uomo” nel vero senso del termine, capace di esiliarsi senza
rimpianti dai lustrini della TV e da una carriera già tracciata in cerca della
verità o semplicemente sulle orme indistinte del senso riposto delle cose sul
palcoscenico di un teatro, in grado di cogliere le mille idiosincrasie di una
società, come quella italiana, che non è proprio il massimo come giustizia
sociale e sistema dei valori, a pensarci bene: stiamo parlando ovviamente di Giorgio Gaber, che se n’è andato in
punta di piedi il primo gennaio del 2003, a soli sessantatre anni, poco prima
di aver terminato le registrazioni della sua ultima fatica discografica, Io
non mi sento italiano, uscita postuma. Fermo restando che l’ascolto dei
brani induce una logica commozione per la scomparsa di un uomo intelligente e
di un artista veramente originale, entriamo nel dettaglio della tracklist
rilevando subito che, tra le dieci tracce complessive, sono sei le canzoni
inedite e quattro i brani estrapolati dal vasto repertorio teatrale dell’uomo di spettacolo
milanese. L’album si apre all’insegna della pensosa amarezza che
contraddistingue Il tutto è falso, una disincantata fotografia di un
mondo in cui, a voler togliere le cose false che lo affollano, non resta più
niente. La tonalità di generalizzato pessimismo è la stessa che marcava La mia generazione ha
perso, ravvivata, esattamente come il precedente album di Gaber, da
sprazzi di irridente vitalismo e squarci di intenso lirismo, come nel caso
della successiva traccia Non insegnate ai bambini che, ad ascoltarla
dopo la scomparsa di Gaber,
sembra quasi l’eredità morale di un uomo saggio e sensibile, preoccupato di far
crescere le nuove generazioni al di fuori dalle pastoie ideali degli adulti di
oggi. A ruota arriva anche la title track, un’allegra marcetta che passa
in rassegna le troppe idiosincrasie della società italiana, con un’agilità ed
una capacità di dettaglio sorprendenti, senza mai esagerare perché, se Gaber
non si sente italiano, ammette “per fortuna o purtroppo” di esserlo. Ad un
dipresso il
disco prosegue con L’illogica allegria, che ci racconta la
sensazione di paradossale armonia che un uomo sa trovare in se stesso anche
quando intorno a lui tutto va in rovina, un brano degli anni Ottanta, estratto
dallo spettacolo Pressione bassa, esattamente come Il dilemma ,
giocata sul dilemma per definizione, l’amore. L’album
presenta anche due brani degli anni Novanta, ovvero la splendida La parola
io (tratta dallo show Un’idiozia conquistata a fatica) e
l’impagabile satira ‘catodica’ di C’è un’aria (tratta da Io come
persona). Io non mi sento italiano si completa con la
disperata I mostri che abbiamo dentro, il blues allusivamente
erotico de Il corrotto (davvero delizioso) e la conclusiva Se ci
fosse un uomo, una canzone intensa e difficile, volta ad un futuro oscuro
in cui s’intravede comunque un barlume di speranza, per certi versi una sorta
di testamento spirituale di Gaber. Il Signor G è morto, lunga vita al Signor G: saranno in
molti a non dimenticare la sua sensibilità ed il suo acume, mai esibito
platealmente, ma diffuso con allusiva ironia.
Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano [Cgd East West 2003]
Voto
8