La mia generazione ha perso
Giorgio Gaber dal vivo
Io non mi sento italiano
E’ sempre tranquillo e disincantato Giorgio Gaber: nonostante il titolo
del suo ultimo album, La mia generazione ha perso, abbia un
retrogusto chiaramente amaro, il cantante-attore milanese continua a raccontare
cose che molto danno da pensare coltivando nel contempo l’arte di non prendersi
troppo sul serio, particolare tutt’altro che accessorio nella canzone d’autore
contemporanea. Il riferimento cronologico, evidente nel titolo, ben si coniuga
con l’onestà intellettuale di un artista che ha sempre preferito porsi dubbi ed
ha cercato di farli sorgere nel pubblico, piuttosto che offrire risposte
assolute quanto facili. Anche la musica di Gaber è sempre la stessa, a mezzo
tra lo chansonnier e l’autore di canzonette, come pure intatto è il
binomio creativo formato da Gaber e Sandro
Luporini in cabina di scrittura. Nella tracklist (il cantattore
probabilmente aborrirebbe il termine) trovano spazio dodici brani che
affrontano, più o meno, tre grandi temi: la politica (ed il
sociale), l’amore
(e la persona), la
riflessione esistenziale o filosofica che dir si voglia. Si comincia con Si
può, un brano già edito e riaggiornato, un ironico inno alla diffusione di
pseudo-libertà circolanti nella società, segnata dall’ossimorica aspirazione
alla libertà obbligatoria. A ruota arriva il tono elegiaco di Verso il terzo
millennio, una canzone che offre una sofferente riflessione sulla vita
contrappuntata da una struggente chitarra classica, giusto con uno spiraglio di
speranza nella chiusa. Il brano successivo s’intitola Il conformista: Giorgio Gaber vi disegna
un ritratto ironico e sbeffeggiatorio dell’individuo che “pensa per sentito
dire” e, lungo un blando reggae di periferia, all’occorrenza attraversa
in progressione tutti gli i possibili ‘ismi’ ideologici. Poi c’è una bella
canzone d’amore come Quando sarò capace d’amare, delicata e di rara
sensibilità. La razza in estinzione è probabilmente la gemma dell’album
e ne contiene il titolo in un verso; attraverso un’atmosfera musicale memore
dell’ultimo Sting
ed un taglio critico
gucciniano Gaber lancia affermazioni mirate, decise, provocatorie, per
concludere “possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso, ma la mia
generazione ha perso”: insieme alla successiva Canzone dell’appartenza,
intensa da far male, costituisce il cuore e l’anima dell’album.
Il potere dei più buoni utilizza un arrangiamento di sapore circense per
lanciare frecciate all’ipocrisia imperante ai piani alti della società.
Nell’ultima parte del disco troviamo ancora due belle canzoni d’amore: Un
uomo e una donna, il fulcro da cui riparte il mondo, e Il desiderio,
per Gaber la chiave non solo dell’amore ma di tutto il resto, nel mezzo Destra-Sinistra,
brano già edito, un vero cult che contrappone, sdrammatizzandole,
ideologie (solo talvolta) agli antipodi, attraverso un soul semiserio ed
un taglio deliziosamente grottesco. La chiusa de La mia generazione
ha perso è il dittico composto da L’obeso, metafora
inquietante (anche sul fronte musicale) dell’individuo contemporaneo che
s’ingozza d’informazioni, ed infine la registrazione live di Qualcuno
era comunista, un brano in gioioso crescendo d’intensità emotiva: parole
toccanti, epiche, che arrivano al cuore e, solo dopo, si lasciano
razionalizzare. C’è un gran bisogno di musica come questa.
Giorgio Gaber, La mia generazione ha perso [Cgd/East West 2001]
Voto
8+