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  23/04/2024 - 08:15

 

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Gli Omini
Gabbato lo Santo
Un ritratto politically scorrect del contemporaneo di e con Riccardo Goretti, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini
Al Teatro Everest Galluzzo, Firenze, all’interno del progetto trilogia, dal 26 al 28 febbraio 2010

 




                     di Tommaso Chimenti


Come nelle polaroid, vero oggetto culto del nostro passato recente, precursore della fotografia digitale, si immortalano Gli Omini nel loro “Gabbato lo Santo” (interessante tre giorni a loro dedicata proposta dal Teatro Everest), immolandosi al ludibrio in una mostra delle perversioni normali, dei “delitti” comuni, dei malcelati vizi striscianti. Nessuna scenografia, solo quattro corpi, quattro topos, quattro stereotipi e tipologie di uomini medi, grigi ma che si sentono originali e illuminati, geniali nelle loro affermazioni sentite e scontate. Le loro sono chiacchiere da bar riportate in forma drammaturgica, il banale, il trito di paese, il già sentito e spacciato come abbagliante. Sono semplici i personaggi tratteggiati, forse neanche pericolosi presi singolarmente, ma è la massa, il concentrato di questo ominide moderno che può creare delle controindicazioni. Quattro tipetti per niente rassicuranti: c’è lo psicolabile autistico esagitato (Francesco Rotelli), la femme fatale insicura (Francesca Sarteanesi), l’ingenuotto di borgata, scemo del villaggio un po’ Verdone in “Bianco, Rosso e…” (Luca Zacchini), il capocompagnia pseudosaggio (Riccardo Goretti). Gli Omini ce la mettono tutta per distruggere le tradizioni, in primis la religione cattolica, il matrimonio, a sconfessare i padri, ad esaltare la stupidità latente (stessa materia trattata dai Sotterraneo), i luoghi comuni che ci scorrono sotto pelle (simile disciplina dei Babilonia Teatri nei loro “Made in Italy” e “Pornobboy”), a far emergere il nulla del quale è composto il nostro dna. Sono sgarbati e schifosi, terribili, maleducati e maschilisti, delinquenti, rustici e triviali, rurali e grotteschi, anticlericali da scomunica, blasfemi, politicamente scorretti (a tratti hanno lampi di Antonio Rezza), incolleriti, hooligans, toscanacci maledetti, bastardi amari, banditi, disgustosi, scomodi pistoleri, marci, rivoltanti. Siamo noi allo specchio: brutti, sporchi e cattivi, pentole a pressione pronte ad esplodere nella frustrazione, nel parapiglia della vita divenuta spot e pubblicità, colorata, accecante e finta. Sono Homer Simpson ma più pungenti, sono i personaggi di Cinico Tv ma più brutali, sono gli “Amici Miei” dei tempi moderni, sono gli attuali “Giancattivi”. Sono sovraeccitati, energici, si parlano addosso senza ascoltarsi, corrono e si abbracciano come se fossero al Mundial, sono fisici e terreni, che l’uomo è, e rimane, pur sempre un animale, imborghesito, ma pur sempre una bestia da istinti primordiali. Ed allora, a raffica, arrivano stilettate a flusso continuo, coltellate alle spalle senza pentimento, senza coscienza, senza rimorsi: colpi alla comunità omosessuale, “Sono gay”, “Non è un problema, pensa io ho un cugino nano”, vai col liscio a gamba tesa sul Santo Padre, “Anche il Papa è gay”, “Come fa ad essere gay, è fascista”, per finire a gomiti alti: “Meglio fascisti che froci”. Fanno il saluto romano, che tanto è stato sdoganato ed ormai chi è che non ha un busto del Duce sulla scrivania come fermacarte. La loro acidità deriva direttamente dalle nostre casette con le trine alle tende, dalle famigliole che hanno intervistato nel loro ispezionare piccoli comuni in giro per l’Italia. Quel che ne esce è un quadro disarmante, fa evidentemente molto ridere, e desolante nei discorsi ammezzati ed abbozzati, nell’analfabetismo di ritorno, nell’incuria dei rapporti interpersonali, nel provincialismo fatto passare per vanto, nel gramelot sgrammaticato ed incomprensibile per mancanza di terminologia e, come diceva Nanni Moretti, “se parli male, pensi male e vivi male”. Si sputano in faccia, urlano, vomitano un pandoro, tanto per spezzare le reni anche al Natale. Le loro mitragliate pungono i giovani, i drogati “di oggi sembrano persone normali, non li riconosci”, gli handicappati, i Verdi, gli stranieri; praticamente non manca nessuno all’appello alla nostra tracotanza, al nostro nervosismo verso lo sconosciuto, il diverso, inteso come minaccia soltanto per la sua esistenza, per il suo volume di carne che ci si para di fronte. Perché, in fondo, prima di colpire il poveraccio che fa l’elemosina, ci facciamo il segno della croce. Siamo italiani, dopo tutto.

Voto 7 + 

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