nche la 63° edizione del festival del cinema di Venezia, come ogni hanno si presenta
con i soliti problemi logistici e strutturali, ma con una rinnovato vigore,
grazie alla sapiente direzione di Marco Muller che ha dato vita ad un
cartellone di tutto rispetto, ponendo Venezia sotto i riflettori di tutto il
mondo.
Nel concorso internazionale si sono potuto
vedere due film americani molto attesi. The Black Dahlia di Brian De
Palma ci riporta all'immaginario noir degli anni cinquanta, ma questa volta la
sua carica visiva si formalizza in un tessuto narrativo che tende a spegnere il
fuoco delle pagine del romanzo
di James Ellroy,
deludendo le aspettative. Hollywoodland
di Allen Coulter si
realizza nella cornice splendida di ambienti di genere, ma non va oltre una
superficiale narrazione, priva di spunti stilistici da autore.
A seguire,
sorprende Syndromes and a Century del regista tailandese Apichatpong
Weerasethakul, costruito intorno ai ricordi della storia d'amore dei suoi genitori, suddiviso
in due episodi, manifestando l'impasse di un esistere frainteso e scisso in
specchi visivi avvolgenti, che lasciano il sentire vago dei sentimenti in un
limbo indefinito. Apice del concorso fin d'ora.
Il ritorno di Paul Verhoeven in Olanda,
coincide con Zwartboek,
storia vera di spionaggio nella seconda guerra mondiale, abile nell'inserire il
suo sguardo di sesso e potere, lungo le direttrici di genere, dove non c'è
tempo per pensare, ma solo per agire nella transitorietà degli eventi. Daratt del regista africano Mahamat
Saleh Haroun, ci porta tra
le ferite sociali del Ciad nell'elementare racconto di una vendetta che si
tramuta in un viatico del perdono e della comprensione, con un linguaggio
filmico basico ed elementare, sorretto dall'urgenza morale della fabula.
Nel Fuori Concorso,
deludente il film coreano The City of violence di Seung-wan
Ryoo, semplicemente inglobato in una
esposizione ipercinetica di un cinema fine a se stesso e vuoto nel
contenuto. World
Trade Center di Oliver Stone, basato
sui fatti realmente accaduti di due poliziotti intrappolati sotto le macerie
delle due torri, diventa il passaggio ovvio di una emozione vissuta collettivamente,
ma che sprigiona il sentire retorico di un messaggio puramente avulso dal
contesto storico, che avrebbe trovato una sua funzione maggiormente esplicita
nella forza di una diversa espressione cinematografica.
Altro gradito ritorno è
quello di Spike
Lee con il documentario When the leeves broke. A requiem in four acts, svolta a
raccontare in quattro atti compressi in 255' minuti della catastrofe accaduta
l'agosto 2005 a New Orleans con l'avvento dell'uragano Katrina. Sguardo acuminato, ma coinvolgente nelle sue declinazioni naturali
del formato, atto a svelare ingiustizie ed a porre alla luce dei riflettori
realtà a noi sconosciute, con vibrante passione e spirito civile. I giorni del
festival si susseguono uno dopo l'altro, tra film e feste di rito, ma le
sorprese sono sempre dietro l'angolo e i titoli appetitosi non mancano.