Brand new day
...all this time
Torna
con la sua incomparabile classe Sir Gordon Matthew
Sumner, in arte Sting,
ex leader dei mai dimenticati Police a cavallo tra gli anni Settanta e gli
Ottanta, solista di successo a partire dal 1985 con The dream
of the blue turtles fino a Brand new day,
uscito nel 1999. L’ultimo album di Sting s’intitola Sacred love
ed arriva dopo la toccante parentesi del recente live del
2001, registrato in un’atmosfera surreale nella splendida villa del
cantante, ormai toscano d’adozione, durante la tragica serata dell’11
settembre. L’ultima fatica del cantautore britannico conferma quanto di buono
Sting ha lasciato intravedere nella sua produzione degli anni Novanta,
caratterizzata da continue contaminazioni tra la sua direzione privilegiata di
riferimento – ovvero jazz, rhythmn’n’blues e pop-rock,
ovviamente – ed occasionali sperimentazioni in chiave arabeggiante (qualcosa si
era già sentito appunto in Brand new day: ascoltare in merito la
bella Desert rose) ed elettronica. D’altra parte cosa ci si può
attendere da un artista che ha già
conosciuto un successo enorme in tutto il mondo, ed un successo autoriale non
meramente di mercato, se non un’intelligente rielaborazione dei propri temi con
l’introduzione controllata di novità, da fondere ed armonizzare al meglio in un repertorio ormai talmente stratificato
da innescare automaticamente richiami interni? Per rendersene conto basta
ascoltare Never coming home, uno dei pezzi migliori dell’album, che cita
appunto l’arpeggio centrale di Bring on the night. Nella tracklist di
Sacred love figurano dieci pezzi inediti più un serrato remix del
singolo Send your love ed una bella interpretazione live di Shape
of my heart come bonus track conclusiva. Entrando nel dettaglio
delle canzoni in scaletta, l’album prende avvio con la suggestiva apripista Inside,
una ballata nostalgica tipicamente stinghiana, dotata di grande impatto
emotivo; a ruota segue il primo degli esperimenti in programma, ovvero il
singolo Send your love, che miscela elettronica e ritmi arabeggianti con
la chitarra flamenco della guest Vicente Amigo. La traccia successiva
presenta Whenever I say your name, che vede Sting
impegnato in un patinato duetto de luxe con una vocalist di razza
come Mary J. Blidge, in continuo bilico tra pop e soul, canzone
senz’altro piacevole ma piuttosto scontata. Discorso completamente diverso per
il dittico seguente costituito dall’elegante Dead man’s rope e dalle
screziature elettroniche di Never coming home. Avvolgente ma tutto
sommato non entuasiasmante la successiva ballata Stolen car, mentre
risulta deliziosa Forget about the future, raffinata e jazzata, carica
di un groove semplicemente contagioso. Va a finire che l’unico momento
fuori dagli impeccabili schemi di Sacred love
è costituito dal rock vagamente sporco di This war. Le ultime due
canzoni inedite della tracklist sono l’orientaleggiante The book of
my life (con il sitar di Anoushka Shankar) e l’intrigante title-track,
ombrosa ed avvolgente, senza dubbio uno dei migliori episodi del disco. Nel
complesso un ottimo album, che conferma che Sting ha ancora molto da dire,
soprattutto per come continua a dirlo. Certo, un po’ d’imprevedibilità
in più non guasterebbe, ma non si può avere proprio tutto dalla vita...
Sting, Sacred Love [A&M Records 2003]
Voto
8-