Bring it on
Liquid skin
In our gun
Quando
si dice non avere problemi di vena creativa: In our gun, terzo
album di studio dei Gomez, conferma tutto
il bene che di questo quintetto inglese dal sound americano è stato
detto concordemente da pubblico e critica, cosa che in genere capita assai di
rado. Impossibile parlare di evoluzione musicale nei confronti delle precedenti
prove Bring it
on e Liquid
skin, anche perché gli album dei Gomez sembrano sbocciati in una
fantasmagorica terra di nessuno, allestiti in uno strano incrocio tra una bottega
artigianale ed un laboratorio di ricerca, e per i quali vale il detto popolare
dei cioccolatini di Forrest Gump (“Non sai mai cosa ti capita”). In our gun,
comunque, come i primi due album dei Gomez non contiene neppure un riempitivo,
presenta soltanto una tracklist con tredici tracce di ottima musica ed
ogni canzone, al solito, è un felice condensato di idee che musicisti più
scaltriti avrebbero cercato di sfruttare in almeno due e tre brani. Ma i Gomez, oltre che versatili e virtuosisti,
sono anche puristi, un’ulteriore garanzia di qualità per il gentile pubblico:
con i tempi che corrono, infatti, una band del tutto disinteressata a
ricercare il singolo facile è una vera rarità, se poi è anche composta da
musicisti di talento e da ben tre cantanti dalla voce inusuale (Tom Gray, Ian
Ball e Ben Ottewell), tanto meglio. A conferma di queste considerazioni i Gomez
sembrano quasi costringersi ad evidenziare la posizione dei due brani più
assimilabili al formato del singolo, non a caso la ritmatissima Shot shot e
l’intrigante Ballad of nice and easy sono sistemati all’inizio ed alla
fine della scaletta. In mezzo agli apici, undici tracce e mille invenzioni, un
labirinto sonoro in cui è facile perdersi e che ad ogni nuovo ascolto regala
nuovi dettagli, come ad esempio gli originali attacchi che caratterizzano ogni
pezzo, spesso aperti a sorprendenti sviluppi musicali. Ecco che In our
gun presenta in agile rassegna gli ombrosi cerchi concentrici di Rex
Kramer, gli elettronici arazzi rock-pop di Detroit swing 66,
la dolente malinconia di una title track aperta a dilatazioni
psichedeliche, una ballata degna dei primi Pink Floyd come Even song, le
stravaganze chitarristiche di Ruff stuff, la leggerezza West Coast di Sound
of sounds (partorita da un periodo indefinito dalle parti dei Settanta), le
divagazioni elettroniche di Army dub, le delicate magie di Miles end,
lo screziato groove di Ping one down, le alchimie acustiche di 1000
times, l’essenzialità di Drench. Scusate l’eccesso di completezza,
ma tutte le canzoni erano degne di menzione. Perché, brano dopo brano, i dischi
dei Gomez lasciano sempre l’impressione che stia sempre per arrivare ancora
qualcosa di più indispensabile all’orizzonte. Da non perdere.
Gomez, In our gun [Hut 2002]
Voto
7½