L’etere
radiofonico a volte ha questo sorprendente potere di stupirti con una canzone
che ti entra in testa fin dal primo ascolto, mentre magari stai guidando e sei
mentalmente occupato a rispettare i semafori e seguire un determinato percorso:
può succedere di ascoltare qualcosa di nuovo o, come nel caso di Mercy,
qualcosa di ‘vecchio’, seppure irresistibile. È appunto questo il caso di Mercy,
una canzone che, per inciso, sembra una perla perduta della Motown venuta fuori
per miracolo da un archivio che prende polvere dagli anni Sessanta, un brano
contagioso fin dall’attacco e semplicemente stupefacente, sospeso tra soul e rhythm’n’blues: ti entra in testa al primo
ascolto, magari quando stai guidando, per non uscirne più. Si tratta del singolo
che ha lanciato l’ultima stella del soul
britannico, ovvero Duffy,
all’anagrafe Aimée Anne Duffy,
classe 1984, esordiente di belle speranze e dall’incredibile voce nera
originaria del Galles. Per
la voce Duffy è già stata accostata a Dusty
Springfield, per il sound retro
alla collega Amy Winehouse,
con cui ha già dichiarato di non identificarsi affatto:
Duffy, che assomiglia in modo notevole a Brigitte Bardot da
giovanissima, conduce una vita piuttosto morigerata, non fuma e ammira Mick
Jagger e gli Stones, i Beatles e Aretha Franklin. Duffy
è la coautrice delle dieci canzoni del suo album di debutto, alle cui sonorità
calde ed avvolgenti ha contribuito in misura
ragguardevole Bernard Butler, ex chitarrista degli Suede, divenuto manager e mentore musicale della giovane
cantante dopo averne ascoltato un demo quattro anni fa. L’apripista dell’album
è la title track, una ballata ombrosa e struggente che apre
sterminati orizzonti emotivi sopra squallidi spaccati di periferia con un
finale marcato da una strepitosa progressione vocale che apre il disco
mostrando subito le peculiarità di questa sorprendente debuttante gallese dalla pelle bianca come
porcellana ma dall’irresistibile voce black. Il disco continua con una
soul ballad
che sembra uscita direttamente dalla fine degli anni Sessanta, con un refrain semplice quanto efficace che
innesca ogni volta il talento vocale di Duffy. Rockferry prosegue con un’altra canzone dalle
avvolgenti sonorità retro che ci proietta negli States in un punto imprecisato dei
favolosi anni Sessanta: ancora soul con un ritmo soft che certo piacerebbe a Aretha
Franklin. Dopo le accelerazioni ritmiche delle ultime due canzoni
il disco prosegue con una ballata pura e neppure troppo nero come Stepping Stone, comunque davvero da brividi sul
fronte emozionale. E a ruota Duffy continua rituffandosi (e rituffandoci) nel
passato remoto del soul con la
splendida Syrup & Honey,
canzone che presenta un’ouverture
essenziale a base di misurati arpeggi di chitarra letteralmente
illuminata dall’ugula d’oro della cantante
gallese, che ci ‘uccide dolcemente’ a suon di ottave fino all’ultimo secondo. A
un dipresso Rockferry
ci offre un’altra pausa musicale nella contemporaneità con una ballata come Hanging On Too Long,
soltanto vagamente debitrice a sonorità soul
ma comunque marcata da una progressione vocale di quelle che stendono a terra,
anche grazie al solito refrain
chitarristico semplice ma efficacissimo. Nella seconda parte dell’album Duffy ha piazzato anche il singolo che l’ha già resa una
stella a livello mondiale, seguito da Delayed
Devotion, una ballata dal ritmo più blando
ma comunque contagioso. Il dittico finale di Rockferry è semplicemente da
brividi, come potremmo attenderci: prima l’insostenibile leggerezza di I’m Scared,
con un attacco essenziale ma magicamente illuminato dalla voce di Duffy, che nei successivi refrain scatta, come di
consueto, vere e proprie fotografie vocali. A ruota Duffy
chiude il discorso, almeno per questa volta, con Distant
Dreamer, l’ennesima ballata della serie,
semplice quanto struggente. Attendiamo Duffy
fiduciosi all’immancabile vaglio dell’opera seconda, certi che la ragazza non
ci deluderà…
Duffy Rockferry [Universal/Polydor 2008]
Voto
8