Viva la Vida or Death All His Friends, 2008
A rush of blood to the head
Coldplay, A rush of blood to the head, EMI Parlophone, 2002
Coldplay, Parachutes, EMI Parlophone, 2000
I
quattro giovani Coldplay sono quattro studenti dello University College di
Londra, ovvero Chris Martin (voce solista, chitarra acustica e piano), Jon
Buckland (chitarra elettrica), Guy Berryman (basso) e Will Champion (batteria):
una formazione di stampo classico, dunque, sullo stile dei Beatles, tranne che,
a differenza dai Fab
Four, firmano le canzoni le formano collettivamente. Parachutes
è il loro sorprendente album di debutto: il paragone ‘organico’ con i quattro
di Liverpool è assolutamente voluto, non perché ci si muova su quei livelli ma,
proprio come per i Fab Four, in quanto già dai primi passi gli orizzonti
appaiono sterminati, e soprattutto perché molti ottimi (e diversi) modelli
musicali sembrano già felicemente assimilati e personalizzati. I Coldplay all’esordio lasciano già
intravedere uno stile delineato, e Parachutes in particolare pare
essere una sorta di analisi spettrografica della malinconia, privilegiatamente
amorosa, come ben si conviene ad un gruppo d’età così verde. La malinconia che colora
una ad una le dieci tracce (più una bella e sognante ghost track)
dell’album lascia intravedere tra le righe un contenuto ma evidente ottimismo
per il futuro, una sorta di pacato distacco verso un mondo comunque
meraviglioso, una vita comunque degna di essere vissuta – l’apripista
s’intitola, guarda caso, Don’t panic –. L’album vive in questa
dimensione ed ha la (rara) capacità di catturarvi all’interno l’ascoltatore: ed
è un bel perdersi, perché vi si trovano echi dei primi U2 (palesi nell’impasto sonoro della splendida Yellow
come pure in Shiver), degli ultimi Verve e dei Radiohead
introspettivamente lirici (in We never change o Sparks, per
esempio), addirittura qualche sprazzo chitarristico dei Pink Floyd del bel
tempo andato (particolarmente in Spies). In fondo c’è poco da stupirsi,
pensando che in fondo anche i Lùnapop,
partiti come i Coldplay come perfetti outsiders, hanno mostrato di saper
rielaborare modelli eccellenti, di servirsi al meglio dei propri strumenti e di
scrivere testi giovanili ma allo stesso tempo freschi e non banali – basti
pensare in parallelo a quella piccola gemma di normalità emotiva che è Un
giorno migliore –. A parte alcune escursioni pianistiche (Trouble e
di Everything’s not lost) e nonostante i molteplici modelli di riferimento
Parachutes si profila come un album molto omogeneo a livello
tematico e musicale, per cui è anche difficile indicare eventuali emergenze in
un tracklist di notevole livello complessivo, tranne il caso di Yellow,
che è un insostenibile (ed indiscutibile) gioiello di malinconia e lascia
intendere che sentiremo ancora parlare di questo
gruppo in futuro.
Coldplay, Parachutes [Emi 2000]
Voto
7½