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Collettivo Teatro Sotterraneo
Uno – Il corpo del condannato
Per Zoom Festival. elaborazione drammaturgica Daniele Villa Con in scena il performer Iacopo Braca
Al Teatro Studio di Scandicci il 4 dicembre 2006

 




                     di Tommaso Chimenti


In apnea, Teatro Sotterraneo, 2005
Uno – Il corpo del condannato, Teatro Sotterraneo, 2006
Tilt, Teatro Sotterraneo e la regia di Jillian Keiley, 2006
Post It, Teatro Sotterraneo, 2007
La Cosa 1, Teatro Sotterraneo, 2007
Suite, Teatro Sotterraneo, 2008
Dies Irae, Teatro Sotterraneo, 2009


I Sotterraneo migliorano come il vino in cantina. Dall’iniziale “5 per una” a “11/10 in apnea” passando per “100° C: cose di Andersen” fino al “Tilt” di Intercity Toronto, il gruppo fiorentino, (classe ’81-’82) meglio chiamarli “collettivo”, formato da giovani attori usciti da scuole come il Laboratorio Nove, è divenuto a ragione una delle realtà più vive e creative della nuova drammaturgia. Difficili e complessi, ma anche evocativi e spiazzanti. Ti tengono incollati alla poltrona di velluto rosso. Intelligenti e fini, arguti. Sempre sorprendenti con trovate felici sintomo di ricchezza interiore e simbolo di una esigenza-emergenza ad uscire all’aperto. Adesso hanno fatto outing di consapevolezza artistica e non si possono più nascondere. Mezz’ora di energia ed emozioni. In una tenda rotonda s’agita il microcosmo del prigioniero. Dentro c’è tutto e manca tutto. Una tenda da doccia opaca, (l’Hitchcook di “Psycho”?) che fa vedere il fuori ma lo distorce, sgravandone i contorni, quasi un igloo o una canadese, tenda tibetana o indiana. Fumoso cerchio ovattato. Sotto si svolge la vita come messa sotto osservazione, liturgia rituale sotto al vetrino del microscopio. In una gabbia allo zoo. Ed in questo “Uno” proposto allo Zoom Festival 2006 (solo Iacopo Braca in scena, bravissimo, stavolta non “schiacciato” dai colleghi istrionici Claudio Cirri e Matteo Ceccarelli) viene fuori tutta la poetica e le dinamiche dei Sotterraneo: un teatro vero e stilisticamente asciutto, “sporco” di lucide emozioni che arrivano come lame affilate in corto circuiti, sudato e denso, ansante e duro, graffiante e muscolare, fisico fino all’essenza della fisicità che non sta nel gesto ma nella sua sublimazione, nell’immobilismo. La condanna arriva in egual misura sul corpo e sulla mente. Braca parla con gli “amici” impiccati: un toast, le sigarette, un pennarello, un cucciolo di peluche, la dolcezza che viene estromessa, spostata di lato, messa alla porta. Perché dentro c’è violenza. E’ violenza continua. Tutti presi all’amo nella grande vasca di pesci rossi al Luna Park. La spugna, come gli occhiali da sole da duro policeman, finisce in bocca ed il condannato vorrebbe parlare ma nessuno lo capisce, ha urla rattrappite che muoiono in gola, se ne sta con il cappuccio sugli occhi come il gobbo di Nostre Dame perché non c’è niente da vedere. Tutto è falso o meglio falsato, irreale, virtuale nei movimenti da Frankenstein, da dead man walking<. Il tendone da circo lo cinge e lo protegge come una medusa dai lunghi tentacoli. Il morto che respira spara con l’annaffiatoio fino al ripercorrere all’indietro in una fast motion tutta la piece, tutta la vita. Che si ripete, che si ripete, che si ripete. Per ricordarsi di dover vivere. O soltanto sopravvivere.

Voto 7 ½ 

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