Emma Dante: Il Festino, 2009
Emma Dante: cani di Bancata, 2007
Emma Dante: La scimia, 2006
Emma Dante: Mishelle di Sant’Oliva , 2005
Emma Dante: Medea
Emma Dante: MPalermu e Carnezzeria
Quando lo strazio e la tragicità
di Emma Dante diventano, anche non per
colpe proprie, fenomeno di massa, l’effetto è ammosciante
sia per i temi trattati, sia per il passato artistico, quel carro, di battimano
e standing ovation fuori luogo, dei vincitori diventa ricolmo e pieno
d’anidride carbonica, senza lo spazio vitale per un confronto, per un dissenso
fuori dal coro. Se sono stati considerati “capolavori” (dovremmo parlare anche
dell’importanza delle parole e della leggerezza con la quale in molti casi vengono dissotterrati morti e cadaveri e paragoni
altisonanti) Carnezzeria o “Vita mia”, e tra gli ultimi Mishelle
di Sant’Oliva, aveva deluso in molti Cani di bancata.
Questo “Festino” mostra preoccupanti passi indietro in primis nella scrittura
del testo. Un autistico che spiega perfettamente tutta la propria condizione
familiare, che delinea parentele e difetti, che riesce
in maniera lucida e puntigliosa, con fine psicologia, con terminologia
appropriata la situazione psicoattitudinale della madre repressiva, del padre
buono a nulla, del fratello invalido. “Io ero il corpo, lui la mente”, è la più netta delle prese di coscienza, è la chiave che
scardina l’io, è quella consapevolezza raggiunta, e non negata, dopo un
percorso esistenziale fatto di dossi e cadute. Il personaggio di Gaetano Bruno
è border line soltanto nella prima parte di tic e
scatti incontrollabili, in mosse da macchietta da scemo del villaggio in
quell’imitazione repressa dell’essere gabbiano, libero come un uccello per
prendere il volo e uscire da quella casa bunker, da quell’armadio che gli ha
fatto prima da prigione, poi da letto, da madre, da famiglia e ora da bara. I
suoi non sono ragionamenti da folle, forse infantili ma tutt’altro che stupidi
o sconnessi. Anzi Paride ripercorre all’indietro tutta la sua
vita fino a dentro la placenta della madre, con quel fratello al quale lui
(è lui stesso che riconosce la propria colpa esistenziale primordiale, la sua
cattiveria naturale, il suo peccato originale non ancora scontato che non si
placherà mai) con il proprio corpo ha schiacciato le vertebre e gli ha così
impedito di poter camminare. Paride sente il peso della condizione del fratello
Iacopo, costretto su una sedia a rotelle. Ogni volta che lo vede, che lo
abbraccia, che tenta di farlo camminare (è l’unica parte, brevissima, vera e
commovente della piece), è come ricevere una
pugnalata. A Paride è stato insegnato il masochismo e ne gode
delle punizioni, ma adesso non esistono più i carnefici; la madre è
morta, il padre se n’è andato. Resta da eliminare, inconsapevolmente, il
fratello. E così avviene, inevitabilmente, inavvertitamente (la
domanda sorge spontanea: dov’è il corpo del fratello? Dove è stato sepolto? O è
stato tranciato e conservato nel freezer?). E’ come
una liberazione, quella finale, prima di poter prendere lui stesso il volo,
adesso si, veramente libero di spiccare il volo (alla Cristicchi).
Quel fratello (forse il vero scemo è proprio Iacopo, se mai è esistito e non è
un frutto della mente di Paride) che era termine di paragone ad
una normalità non raggiunta nemmeno in due. Mors tua,
vita mea, che la morte dell’uno è diventata l’emancipazione e la realizzazione
dell’altro che può liberamente prendersi la sua pensione d’invalidità. La
scrittura a dir poco è esplicita, non lascia niente alle visioni del pubblico,
non fa immaginare, ma butta in faccia la soluzione in modi spicci, spiegando,
dicendo, più che far passare tra le righe.
Voto
5