"Ho combattuto il cuore dei mulini a vento insieme a un vecchio pazzo che si crede me, ho amato Dulcinea insieme ad
altri cento” (Roberto Vecchioni, “Per amore mio”).
"Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro perchè il “male” e il “potere” hanno un aspetto così tetro? Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità, farmi umile e accettare che sia questa la realtà?” (Francesco Guccini,
“Don Chisciotte”).
“Io qui vedo l’orizzonte e faccio finta di accettare le
predizioni della scimmia che indovina” (Ivano Fossati, “Confessione di Alonso Chisciano”).
Mattatore tra i mattatori, Franco Branciaroli riesuma due mostri sacri del palco,
rimpianti e mai sostituiti, come Vittorio
Gassman e Carmelo Bene, (omaggiandoli) resuscitandoli e affidandogli, più per proiezione
fisica che per sintassi di pensiero, i ruoli dell’allampanato e lungagnone
illuso e resistente Don Chisciotte al primo, e quello del tracagnotto realista
terreno Sancho Pancho al secondo. Ma, in fin dei
conti, chi è più matto, il matto stesso o chi gli crede e lo segue fin in capo
al mondo? In questa stagione sta girando un altro Don Chisciotte,
quello di Herlitzka e Lello Arena, professore e
bidello di una scuola, un po’ Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”. Ed
anche qui i costumi si ribaltano. In un continuo giochi tra dentro e fuori il teatro, tra Branciaroli (visto negli ultimi anni nei
panni, non convincenti, di Galileo come nel beckettiano Finale di partita) che
impersona, con la voce grossa e profonda del primo (viene inesorabilmente alla
mente l’Armata
Brancaleone) e con quella nasale e rincalcata del secondo, i due grandi
attori, ed il se stesso, moderatore tra i due caratteri, presentatore didascalico nel dialogo diretto con la platea, cercando di spiegare quello che sta avvenendo e che, sembra, stia per sfuggirgli di mano. Ad un one man show un po’ di gigioneggiamento è sempre permesso e perdonato. Qui, a differenza di altre performance, il bel Branciaroli si mette al servizio di
questo ben coordinato gioco, in un’aurea area paradisiaca dove albergano le anime-voci (alle quali lui presta il corpo come in un
esorcismo attoriale) con sprazzi ironici come la chiamata dagli Inferi del Sommo Poeta, Dante, che, interrogato come giurato (X Factor o Amici?) a giudicare la miglior interpretazione di un suo canto, dichiara vincitore, un
terzo fortunatamente per lui non presente, Albertazzi (che notoriamente sappiamo con che cosa fa rima baciata). Sulla scena un bar fornitissimo di alcolici di ogni provenienza in un Paradiso molto mondano dall’architettura post moderna, glaciale come in igloo, disegnato una tenda appuntita verso il cielo, torre babelica a forma d’ago per bucare le nuvole. Il cavaliere senza paura, perdente e proprio per questo invincibile, arrivato fuori tempo massimo a combattere la sua battaglia personale all’interno di una guerra che non esiste, o almeno che non è visibile, se non ai cuori sensibili, è pretesto, ma, in fondo, neanche troppo. Ha fatto della propria esistenza un romanzo, un’avventura letteraria, con i sogni possibili e gli incubi reiterati trasformatisi in scomode ed abbattibili verità. Il nemico sta nell’averlo accettato e fatto entrare in casa con il sorriso degli amici, nell’essere stati accondiscendenti, nella non ribellione, nella docile condivisione dell’immaginario collettivo. Sta qui la comodità, il benessere che acquieta e non porta alla riscossa, difficile e faticosa, che è anche rinuncia dell’assodato stanco. L’orazione è intima e scarta dal romanzo alla sua simbologia, dai personaggi riecheggiati alla finzione teatrale in un gioco di specchi e rimandi. Il vero e la finzione si scambiano, si spostano, si accordano, si nascondono l’uno nell’altro come scatole cinesi, a scomparsa, un palleggio continuo tra due modi diversi di pensiero, come una conferenza illuminata, e pacificata visto il campo dove si svolge, rinfacciandosi, ma bonariamente, differenze divenute vezzi e capricci. Carmelo Bene è addirittura comprensivo e poco scontroso, Gassman è pacioso e meno imponente. Il Don Chisciotte fa ora capolino e sfugge, adesso si perita in vere e proprie
incursioni e solide scorribande. E poi è la vita che entra prepotente nel
teatro, come fossero, e fossero sempre stati la stessa cosa, senza divisori né
frontiere: Cervantes che è morto lo stesso giorno e lo stesso anno di
Shakespeare, il cui Amleto non è così distante (23 aprile 1616) così come Gassman e Bene che sono nati lo stesso giorno (1 settembre). Arriva un brivido, che dissipa ed annulla lo spazio temporale, quando Branciaroli, che imita Gassman che è Don Chisciotte, racconta al Branciaroli
che fa Carmelo Bene che è Sancho Pancho, di quella volta che un giovane attore
(Branciaroli stesso da esordiente, nella realtà) recitò al fianco dello stesso
Bene. I piani si assottigliano, moltiplicandosi.
Voto
8