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Lucio Dalla
L’atteso debutto come regista d'opera nell'Arlecchino di Ferruccio Busoni
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da David Agler, scene e costumi di Italo Grassi, luci di Daniele Naldi, interpreti Maurizio Lo Piccolo (Ser Matteo) Paolo Bordogna (L'Abbate Cospicuo), Ugo Guagliardo (il Dottor Bombasto), Filippo Adami (Leandro), Sabina Willeit (Colombina) e l’attore Marco Alemanno (Arlecchino)
Giovedì 30 marzo 2006 alle 20,30 al Teatro Rossini di Lugo. Unica replica domenica 2 aprile 2006 alle 16.

 




                     di Stefania Battaglia


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Catturato da un improvviso fascio di luce che rompe il buio della sala, sguscia fulmineo dall’impermeabile che lo accomunava a spettatore fra gli altri.
L’inaspettato dicitore, introdotto dal suono di una fanfara, quasi rapsodicamente espone al pubblico l’esile intreccio della vicenda che, in una struttura a quadri, inanella le astuzie e le burle di Arlecchino per disfarsi del marito babbeo della bella Annunziata, così come della gelosa di lui moglie Colombina.
Pressoché nudo - appena un paio di boxer aderenti, corredati da scarponcini palestrati e dalle  insegne multicolori di  un guanto senza dita e  di un laccio arrotolato alla caviglia  - l’Arlecchino che Lucio Dalla, per il tramite del “Capriccio scenico ” di  Ferruccio Busoni, traghetta nel terzo millennio, si annuncia così, con un atto di smascheramento del quotidiano che repentinamente sfocia nell’irriverenza di un gesto neotribale da consumato body painter. Di li a poco infatti gli abili spruzzi su gambe e torace di alcune bombolette spray giallo-rosso-verde si incaricano di esplicitare la matrice arlecchinesca di questo novello elfo metropolitano, ora pronto a catapultarsi, attraverso un ingegnoso interstizio spazio/temporale - qui assolto da un labirintico tubone industriale che circoscrive con spettrali saliscendi una spaesata casetta, vagamente disneyana - in quel di Bergamo, sua ideale patria d’origine.
Una felice intuizione, che al pari di molte altre disseminate nel corso dello spettacolo, proietta la figura di Arlecchino oltre quel bagaglio di codici iconografici e gestuali in cui le interpretazioni del secondo Novecento lo hanno rappreso. Grazie anche all’efficace contributo dell’attore Marco Alemanno, intenso e agile, sempre ritmicamente scolpito nel gesto e nella voce, senza nulla concedere a stereotipi e cliché, l’intramontabile personaggio ritrova una purificata energia vitale, provocatoria e iperbolica, peraltro straordinariamente concordante con il carattere e le funzioni che Busoni le ha attribuito. Il compositore infatti, pur suggestionato dalla magistrale esibizione di un attore italiano che impersonava Arlecchino in una commedia della fine del Seicento, «L'inutile precauzione», a cui assistette, nel 1912 a Bologna, non intese riesumare per il suo “Capriccio” il carattere del servo truffaldino, tormentato da una fame atavica. Arlecchino - scrive Busoni - è una confessione in forma drammatica e perciò (a prescindere dagli stimoli) un lavoro assolutamente mio personale.  Cosi come per Picasso che gli dedicò centinaia di schizzi, l’Arlecchino filtrato da  Busoni e valorizzato in tal senso dalla regia di Dalla, è l’uomo che si toglie la maschera, si mette nudo, e così facendo, forse anche nella sua ineluttabile amoralità, evidenzia quelle maschere che  sono i perbenismi, le convenzioni, le mode, l’apparire piuttosto che l’essere. "Voi Arlecchini", griderà sul finale, il nostro eroe vittorioso rivolgendosi con impudente disprezzo al mondo.

Più che parte in causa, il personaggio è sarcastico burattinaio e disincantato commentatore degli avvenimenti, nonché velata proiezione dell’autore come uomo e testimone del suo tempo, attraversato dalla menzogna e dalla violenza della guerra. "Le parole del Protagonista sono le mie proprie confessioni … egli ama, combatte e ride, scappa e canta, ed è come invasato dal demone della verità". Una verità che, per il tramite della caricatura, della parodia, e di una risata dal retrogusto  amaro si applica a smascherare  non solo i costumi sociali, ma  anche le convenzioni operistiche. Lucio Dalla, alla sua prima prova da regista d’opera, superata al contempo con estro e rigore, mostra una sicura duttilità inventiva nel rilanciare la parodia busoniana, disegnando una rete di rimandi e allusioni all’oggi che rendono più riconoscibili ed efficaci sia il tessuto di citazioni di personaggi e convenzioni teatrali e musicali di cui è intrisa l’opera, che gli snodi salienti dell’intreccio. Il tutto con una leggerezza e un  istintivo senso del gioco,  che fanno lievitare in ultima analisi proprio il senso teatrale della musica di Busoni, così che i personaggi e le situazioni sceniche – come si prefiggeva il compositore-  ne risultino inscindibile e naturale emanazione. Il giovane cast di cantanti coadiuva brillantemente le scelte registiche, prestandosi con brio canoro e gestuale alle diaboliche burle del trio Arlecchino-Busoni-Dalla, il quale non rinuncia a farsi catturare dalla sua stessa macchina scenica. Il  monologo arlecchinesco che sul finale riassume la morale della favola e che rappresenta il momento più esplicito dell’opera in cui a parlare, travestito da Arlecchino è Busoni stesso, nell’edizione lughese trova a farsene carico proprio l’inconfondibile voce del camaleontico cantautore bolognese.

Voto 8 

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