Lucio Dalla : l'Arlecchino di Ferruccio Busoni, presentazione
Lucio Dalla : l'Arlecchino di Ferruccio Busoni, recensione
Lucio Dalla : Tosca Amore disperato
Catturato da un
improvviso fascio di luce che rompe il buio della sala, sguscia fulmineo
dall’impermeabile che lo accomunava a spettatore fra gli altri.
L’inaspettato dicitore,
introdotto dal suono di una fanfara, quasi rapsodicamente espone al pubblico
l’esile intreccio della vicenda che, in una struttura a quadri, inanella le
astuzie e le burle di Arlecchino
per disfarsi del marito babbeo della bella Annunziata, così come della gelosa
di lui moglie Colombina.
Pressoché nudo -
appena un paio di boxer aderenti, corredati da scarponcini palestrati e dalle
insegne multicolori di un guanto senza dita e di un laccio arrotolato
alla caviglia - l’Arlecchino che Lucio Dalla,
per il tramite del “Capriccio scenico ” di
Ferruccio
Busoni, traghetta nel terzo millennio, si annuncia così, con un atto di
smascheramento del quotidiano che repentinamente sfocia nell’irriverenza di un
gesto neotribale da consumato body painter. Di li a poco infatti gli abili
spruzzi su gambe e torace di alcune bombolette spray giallo-rosso-verde si
incaricano di esplicitare la matrice arlecchinesca di questo novello elfo
metropolitano, ora pronto a catapultarsi, attraverso un ingegnoso interstizio spazio/temporale - qui
assolto da un labirintico tubone industriale che circoscrive con spettrali
saliscendi una spaesata casetta, vagamente disneyana
- in quel di Bergamo, sua ideale patria d’origine.
Una felice
intuizione, che al pari di molte altre disseminate nel corso dello spettacolo,
proietta la figura di Arlecchino oltre quel bagaglio di codici iconografici e
gestuali in cui le interpretazioni del secondo Novecento lo hanno rappreso.
Grazie anche all’efficace contributo dell’attore Marco Alemanno, intenso e
agile, sempre ritmicamente scolpito nel gesto e nella voce, senza nulla concedere a stereotipi e
cliché, l’intramontabile personaggio ritrova una purificata energia vitale,
provocatoria e iperbolica, peraltro straordinariamente concordante con il carattere e le funzioni che Busoni le
ha attribuito. Il compositore infatti, pur suggestionato dalla magistrale
esibizione di un attore italiano che impersonava Arlecchino in una commedia
della fine del Seicento, «L'inutile precauzione», a cui assistette, nel 1912 a Bologna, non intese
riesumare per il suo “Capriccio” il carattere del servo truffaldino, tormentato
da una fame atavica. Arlecchino -
scrive Busoni - è una confessione in
forma drammatica e perciò (a prescindere dagli stimoli) un lavoro assolutamente
mio personale. Cosi come per Picasso che
gli dedicò centinaia di
schizzi, l’Arlecchino filtrato da
Busoni e valorizzato in tal senso dalla regia di Dalla, è l’uomo che si
toglie la maschera, si mette nudo, e così facendo, forse anche nella sua ineluttabile
amoralità, evidenzia quelle maschere che
sono i perbenismi, le convenzioni, le mode, l’apparire piuttosto che
l’essere. "Voi Arlecchini", griderà sul
finale, il nostro eroe vittorioso rivolgendosi con impudente disprezzo al
mondo.
Più che parte
in causa, il personaggio è sarcastico burattinaio e disincantato commentatore
degli avvenimenti, nonché velata proiezione dell’autore come uomo e testimone
del suo tempo, attraversato dalla menzogna e dalla violenza della guerra. "Le
parole del Protagonista sono le mie proprie confessioni … egli ama, combatte e ride, scappa e canta,
ed è come invasato dal demone della verità". Una verità che, per il tramite della caricatura, della
parodia, e di una risata dal retrogusto
amaro si applica a smascherare
non solo i costumi sociali, ma
anche le convenzioni operistiche. Lucio
Dalla, alla sua prima prova da regista d’opera, superata al contempo con
estro e rigore, mostra una sicura duttilità inventiva nel rilanciare la parodia
busoniana, disegnando una rete di rimandi e allusioni all’oggi che rendono più
riconoscibili ed efficaci sia il tessuto di citazioni di personaggi e
convenzioni teatrali e musicali di cui è intrisa l’opera, che gli snodi
salienti dell’intreccio. Il tutto con una leggerezza e un
istintivo senso del gioco, che
fanno lievitare in ultima analisi proprio il senso teatrale della musica di
Busoni, così che i personaggi e le situazioni sceniche – come si prefiggeva il
compositore- ne risultino inscindibile e
naturale emanazione. Il giovane cast di cantanti coadiuva brillantemente le
scelte registiche, prestandosi con brio canoro e gestuale alle diaboliche burle
del trio Arlecchino-Busoni-Dalla,
il quale non rinuncia a farsi catturare dalla sua stessa macchina scenica.
Il monologo arlecchinesco che sul finale
riassume la morale della favola e che rappresenta il momento più esplicito
dell’opera in cui a parlare, travestito da Arlecchino è Busoni stesso,
nell’edizione lughese trova a farsene carico proprio l’inconfondibile voce del camaleontico cantautore bolognese.
Voto
8