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  20/04/2024 - 09:01

 

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Scanner - musica
 


Moby
18
la prima sensazione è ascoltare un "Play Part 2"
[Mute Records / V2]

 




                     di Bernardo Cioci


Moby: 18, 2002
Moby: Play, 1999


Titolare della storia di successo più singolare degli ultimi tempi, Richard Melville Hall in arte Moby torna a farsi sentire con una differenza non da poco, perché stavolta si ripresenta nelle vesti di star universalmente nota, vera celebrità anche per coloro che ascoltano musica mediante pigri zapping fra una stazione radiofonica e l'altra.

Ammesso che ce ne sia bisogno, urge ricordare che il precedente album del nostro, "Play", iniziò come disco di culto - accompagnato da recensioni più che positive - per piombare un anno dopo sulle televisioni di tutto il mondo grazie all'amore tributatogli da numerose agenzie di pubblicità, che ne hanno poi sparso i brani su vari spot destinati a fare il giro del mondo. Logico che da qui al successo di vendite il passo sia stato breve, e che la conseguenza si sia materializzata in qualcosa come dieci milioni di unità smistate per tutto il globo.

Appurato che adesso il campo è quello della "musica da supermercati", dunque ottima per far dannare coloro che seguono la carriera dell'esile musicista newyorchese fin dal giorno zero, possiamo porci in tutta franchezza la domanda cruciale: vale, e se sì quanto vale "18"? Prosegue la tradizione trasformista di un personaggio che nella propria carriera ha spaziato con alterni risultati dall'industrial all'acid house, oppure si ferma sul filone redditizio che la fortuna volle permettergli di scovare un paio di stagioni fa?

La risposta è la numero due. Spiace dirlo, ma " 18" non cambia una singola carta sul tavolo, a tal punto che la prima sensazione è quella di prendere in mano il libretto e mettersi a cercare il sottotitolo "Play Part 2".

E dire che il primo singolo, " We Are All Made of Stars", portava con se le avvisaglie dell'ennesima mutazione, magari un po' trendy e orientata verso quel sound "Electro '80s" che sta prendendo piede un po' ovunque. Peccato in fondo veniale dato che il pezzo è buono, e dotato di maggior senso visto che Moby il clubbing degli anni '80 lo ha vissuto in prima persona, non certo per sentito dire.

Ma è solo un fuoco di paglia, perché da qui in poi il terreno torna ad essere più che familiare, forse troppo. Già con "In This World" ci troviamo di fronte ad un copia carbone di "Natural Blues", e questa sensazione si ripresenterà più volte nel corso di tutto l'album.

Sono perplessità che rimangono anche quando il trademark di "Play" si allontana un po', ad esempio con i richiami diretti ai Beastie Boys ("Jam For The Ladies" forse è pensata per essere la nuova "Bodyrock"), con vagheggiamenti New Age che non portano a molto ("18"), o nella scarsa importanza che "Harbour" lascia ad una voce come quella di Sinéad O'Connor.

Fortunatamente non siamo in presenza di un disastro totale, anche perché i brani su cui Moby mette la propria voce, limitata ma spesso capace di infondere uno strano calore, riescono in qualche modo a tenere in piedi la baracca. E c'è da dire che alcune di queste canzoni, le eteree "Signs of Love" e "Sleep Alone", o la più decisa "Extreme Ways", siano da annoverare fra le migliori che abbia mai cantato.

Perché " 18" non è brutto, è soltanto un peccato, e probabilmente un maggior lavoro in fase di editing avrebbe dato più senso al risultato finale. Se è vero che Moby ha scritto 150 pezzi per questo disco, 132 dei quali sono rimasti nel cassetto, possiamo ribattere che un maggiore coraggio nella loro cernita avrebbe senz'altro giovato.

Voto 6 

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