Carlo Monni, L'amor è quel che conta, 2003
Carlo Monni, Monni all'inferno, 2005
Carlo Monni, intervista, 2007
Carlo Monni, Nottecampana, 2008
Carlo Monni, il ricordo di Scanner, 2013
Carlo Monni, Il ricordo di Titti Foti, 2013
"E’ meglio morire allo sbaraglio in piazza che
essere tutelati della cultura ufficiale”. Così Carlo Monni rilancia il suo
conosciuto anatema ai velluti dei teatri infiocchettati, quelli che non lo
hanno voluto, quelli in cui lui, per scelta, da molto tempo non mette più
piede. Dove non si è mai sentito a suo agio come tra il
popolo. Sempre per scelta non ha cellulare, non ha televisione, non ha
computer, non ha scarpe ma solo sandali francescani,
non è mai entrato in un supermercato né grande magazzino. Anche
così ci si difende dalla modernità e si scomunica la tecnologia. Per trovare il
Monni basta andare alle Cascine. Gli sono rimasti appiccicati addosso come
seconda pelle i ruoli di Bozzone in “Berlinguer ti voglio bene”, di Geppetto
nel “Pinocchio” con i
Due Mendi, il padre in tante pellicole con Nuti prima e dopo con Benvenuti. Ogni mattina macina
chilometri. “Camminare mi ha salvato la vita”, spiega mentre
passa sull’argine dell’Arno. Senza maglia, con i sandali a
tracolla, i pantaloni tirati al polpaccio come un gondoliere. La gente
lo saluta con amore. E’ uno di loro. La signora con le sporte
della spesa, l’anziano con il cane a passeggio, il ciclista in pensione.
Gli vogliono bene e lui ricambia, grezzo ma sincero, verace e naif. Un’estate molto impegnata quella appena trascorsa: “Ho
lavorato troppo – spiega Monni
continuando imperterrito a camminare di gran lena – proprio in questi giorni ho
girato una scena a Prato di “Cenci in Cina” di Marco Limberti
(con Alessandro Paci protagonista) e “Il mattino ha l’oro in bocca” di
Francesco Patierno tratto dal libro “Il giocatore” di
Marco Baldini (la spalla di Fiorello su Rai Radio
2)”. E poi le letture al Forte Belvedere, le due serate con “Monni all’Inferno” nelle
splendide Cave di Seravezza, le serate all’“Utopia
del Buongusto” del Kaemmerle con “Ostaggi” e le tante
feste de l’Unità dopo porta il suo “Compilation 1, 2 e 3” una
ricerca tra canzone e letteratura: Casole d’Elsa, Tavarnelle, “a Castelfranco di sopra ho ammansito una folla
di duemila persone e neanche uno che sia andato via: sembra impossibile averli
intrattenuti soltanto con la poesia”. Sempre più bukowskiano,
poeta maledetto (vive a Firenze in via dell’Inferno), ancora innamorato folle
di Dante, odia ancora, sempre più, la televisione, parla
con ammirazione del figliol prodigo Massimo Ceccherini. Di quelli che hanno fatto
della propria vita un romanzo e non il contrario, anche se “ho una
sceneggiatura un po’ autobiografica di qualche anno fa nel cassetto. Il
protagonista è Torquato Nerucci uno che lascia la
campagna per andare in città e riesce a salvarsi dalla fabbrica. Ricorda
vagamente la “Vita agra”
di Luciano Bianciardi. Nerucci è uno che entra in biblioteca e dopo poco mette a
vangare tutti gli intellettuali”. E adesso come stai?
“Mi sento affaticato – dice sorridente grattandosi il petto villoso e
strizzando gli occhi chiari guardando l’Isolotto – quando sarà terminato questo
periodo di intenso lavoro su più fronti mi dedicherò a
pieno alle passeggiate ed alla scoperta di piccole trattorie nostrane”.
Voto
8