"Marylin dice che per dormire ha
bisogno di una goccia di Chanel numero 5, io non ci
riesco nemmeno con una scatola di barbiturici".
L’operazione è
indubbiamente interessante e certamente da ripercorrere, incontrare nuovamente
in altre realtà. Prendete un testo, l’ultimo di Koltes rimasto incompiuto per la prematura morte,
“Coco” dedicato alle ore finali della Chanel, prendete due
registi che arrivano, per formazione, anagrafe, sentire, da luoghi teatrali differenti,
Alessio Pizzech
e Dario
Marconcini, una traduzione raffinata e sciolta
pur rimanendo altera e fiera, di Luca Scarlini
(magnifica, esaustiva e trasognante in bianco e nero la sua conferenza-presentazione
del progetto), aggiungete adesso due attrici, Giovanna Daddi
e Elena Croce, che tra il primo round ed il secondo si scambiano i ruoli, tra
la stilista e la servetta-badante. Ecco che l’iniziativa del Teatro di Buti risulta frizzante con due modi di fare teatro a confronto,
mezz’ora l’uno, un match a distanza, ravvicinato ma comunque distante. La
traduzione di Scarlini era già stata adottata in forma di lettura anni or sono
dal Laboratorio Nove di Sesto Fiorentino di Barbara Nativi. La scorsa estate ne
era uscita una prova scialba dei bolognesi Teatrino Giullare,
versione piuttosto cupa, nera, fumosa, pesante nel continuo vedo-non vedo d’oggettistica
a buon mercato e specchi e pezzi di corpo che ogni tanto facevano capolino. In
questo “doppio sogno” butiano, Pizzech,
nel marzo 2010 presenterà un altro Koltes,
“L’eredità” al Fabbricone, calca la mano sull’accatastarsi degli abiti, il suo
passato, alle spalle del mito che si contorce negli ultimi istanti su un letto
gonfio, alto e spesso, comodo come forse non era stata la vita della sarta
d’alta qualità. L’ambientazione è per somma, la musica a sottolineare,
lirica, curata, l’aria a cappa, polverosa a seppellire. Marconcini
ne dà un taglio più minimalista ed essenziale, già dalle forme d’arredo, due
pezzi semplici, squadrati e angolari, spigolosi, luci accese con un bianco che
spara ed annulla i colori e i tessuti che hanno fatto
da contorno e sfoggio nell’esistenza di Coco: come antitesi. Una panca dura di
legno da eremo, da seminario, da monastero, è il letto di morte, sudario in
bianco, mentre Consuelo sfila, o tenta di farlo, per prenderne in qualche modo
l’eredità, e la Daddi qui è il Cristo della Pietà con la
mano cadente a terra senza nessuna madre a sollevarla, sostenerla, sottrarla dalla
fine. In Pizzech Coco ha tra le braccia un cuscino,
segno di una voglia di maternità infranta, elusa, di un domani che non esiste, che
non vedrà, ed è fagocitata e chiusa nel sarcofago delle sue lenzuola a
batuffolo, una farfalla che ha volteggiato e sbattuto le sue ali splendide che
ritorna ad essere bozzolo informe e incolore. “Coco” è un canto del cigno che
non vuole lasciare il suo stagno, per il quale ha lottato con le unghie, a chi
non se lo merita. Qui muore una persona, una donna, non più un mito vivente.
Muore la forma, quella stessa etichetta che prevede di annullare rossetto e
tacchi. Scompare la sostanza della carne mentre la Chanel tenta di mantenere
contegno e compostezza regale, schiena dritta, anche al cospetto dell’aldilà, invece
la sguattera, in Marconcini è un’hostess
cattiva, una segretaria arcigna e severa, una maestrina puntigliosa e gretta con
tanto di bacchetta, ha (nel testo, sulla scena le due attrici sono più o meno
coetanee) l’arroganza della gioventù che si prende tutto quello che vuole
badando agli istinti primari. Consuelo è il mondo che non vuole farsi mettere
ordine dai tubini, dai tailleur eleganti e dalla classicità di Coco,
la cameriera è randagia, arrogante come la maschera da lupo (ricorda quelle del
“Pinocchio” del Teatro
del Carretto) che indossa per mangiarsi la nonna, la padrona è stanziale,
certamente più sola, ammantata nel suo alone di mistero inavvicinabile, mentre la
ragazza, indecente come la sua età, ha l’insolenza e la freschezza dell’illusione
di avere tutta la vita davanti. Un rapporto che sfiora l’eros e il saffico, che
ripropone il carnefice e la vittima che in ultima
istanza si ribaltano: padrone-servo di “Finale di partita”.
Voto
8