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Coco
Testo di Bernard Marie Koltes
Nella doppia lettura di Alessio Pizzech e Dario Marconcini. Traduzione di Luca Scarlini. Coco: Elena Croce, Consuelo: Giovanna Daddi, Coco; Giovanna Daddi, Consuelo: Elena Croce, Scene e costumi di Leontina Collaceto
Prima nazionale: Teatro Francesco di Bartolo - Buti 26, 27, 28 febbraio, 1 marzo 2010

 




                     di Tommaso Chimenti


"Marylin dice che per dormire ha bisogno di una goccia di Chanel numero 5, io non ci riesco nemmeno con una scatola di barbiturici".

L’operazione è indubbiamente interessante e certamente da ripercorrere, incontrare nuovamente in altre realtà. Prendete un testo, l’ultimo di Koltes rimasto incompiuto per la prematura morte, “Coco” dedicato alle ore finali della Chanel, prendete due registi che arrivano, per formazione, anagrafe, sentire, da luoghi teatrali differenti, Alessio Pizzech e Dario Marconcini, una traduzione raffinata e sciolta pur rimanendo altera e fiera, di Luca Scarlini (magnifica, esaustiva e trasognante in bianco e nero la sua conferenza-presentazione del progetto), aggiungete adesso due attrici, Giovanna Daddi e Elena Croce, che tra il primo round ed il secondo si scambiano i ruoli, tra la stilista e la servetta-badante. Ecco che l’iniziativa del Teatro di Buti risulta frizzante con due modi di fare teatro a confronto, mezz’ora l’uno, un match a distanza, ravvicinato ma comunque distante. La traduzione di Scarlini era già stata adottata in forma di lettura anni or sono dal Laboratorio Nove di Sesto Fiorentino di Barbara Nativi. La scorsa estate ne era uscita una prova scialba dei bolognesi Teatrino Giullare, versione piuttosto cupa, nera, fumosa, pesante nel continuo vedo-non vedo d’oggettistica a buon mercato e specchi e pezzi di corpo che ogni tanto facevano capolino. In questo “doppio sogno” butiano, Pizzech, nel marzo 2010 presenterà un altro Koltes, “L’eredità” al Fabbricone, calca la mano sull’accatastarsi degli abiti, il suo passato, alle spalle del mito che si contorce negli ultimi istanti su un letto gonfio, alto e spesso, comodo come forse non era stata la vita della sarta d’alta qualità. L’ambientazione è per somma, la musica a sottolineare, lirica, curata, l’aria a cappa, polverosa a seppellire. Marconcini ne dà un taglio più minimalista ed essenziale, già dalle forme d’arredo, due pezzi semplici, squadrati e angolari, spigolosi, luci accese con un bianco che spara ed annulla i colori e i tessuti che hanno fatto da contorno e sfoggio nell’esistenza di Coco: come antitesi. Una panca dura di legno da eremo, da seminario, da monastero, è il letto di morte, sudario in bianco, mentre Consuelo sfila, o tenta di farlo, per prenderne in qualche modo l’eredità, e la Daddi qui è il Cristo della Pietà con la mano cadente a terra senza nessuna madre a sollevarla, sostenerla, sottrarla dalla fine. In Pizzech Coco ha tra le braccia un cuscino, segno di una voglia di maternità infranta, elusa, di un domani che non esiste, che non vedrà, ed è fagocitata e chiusa nel sarcofago delle sue lenzuola a batuffolo, una farfalla che ha volteggiato e sbattuto le sue ali splendide che ritorna ad essere bozzolo informe e incolore. “Coco” è un canto del cigno che non vuole lasciare il suo stagno, per il quale ha lottato con le unghie, a chi non se lo merita. Qui muore una persona, una donna, non più un mito vivente. Muore la forma, quella stessa etichetta che prevede di annullare rossetto e tacchi. Scompare la sostanza della carne mentre la Chanel tenta di mantenere contegno e compostezza regale, schiena dritta, anche al cospetto dell’aldilà, invece la sguattera, in Marconcini è un’hostess cattiva, una segretaria arcigna e severa, una maestrina puntigliosa e gretta con tanto di bacchetta, ha (nel testo, sulla scena le due attrici sono più o meno coetanee) l’arroganza della gioventù che si prende tutto quello che vuole badando agli istinti primari. Consuelo è il mondo che non vuole farsi mettere ordine dai tubini, dai tailleur eleganti e dalla classicità di Coco, la cameriera è randagia, arrogante come la maschera da lupo (ricorda quelle del “Pinocchio” del Teatro del Carretto) che indossa per mangiarsi la nonna, la padrona è stanziale, certamente più sola, ammantata nel suo alone di mistero inavvicinabile, mentre la ragazza, indecente come la sua età, ha l’insolenza e la freschezza dell’illusione di avere tutta la vita davanti. Un rapporto che sfiora l’eros e il saffico, che ripropone il carnefice e la vittima che in ultima istanza si ribaltano: padrone-servo di “Finale di partita”.

Voto 8 

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