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Ascanio Celestini
Fabbrica (recensione)
Una storia di fatica e licenziamenti, di morti bianche ed alti forni, di operai e famiglie tirate su a pane e lavoro
Teatro Aurora Scandicci - 8 aprile 2004

 




                     di Tommaso Chimenti


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"Cara madre…", comincia così ripetitivo ma mai tedioso ogni periodo. Una lettera, l’ultima alla madre, alla quale aveva scritto e spedito una missiva al giorno per cinquanta anni, tralasciando proprio quella che è la colonna dorsale dello spettacolo.

Una lunga lettera che diviene confessione e racconto, nostalgia e bianco e nero, che diviene polvere e sangue, speranze e vita, che si trasforma e cambia continuamente direzione e si dipana tra altre storie, altre esistenze intrecciandosi, catapultandosi tra flash back a ritroso nel tempo circolare dove tutto torna, dove tutto ha un senso compiuto anche se non è visibile nel presente.

La fabbrica, titolo della fortunata piece da due stagioni in giro per l’Italia, si staglia antica e possente, con l’ombra che tutto può contenere, impassibile ed immutabile agli umori ed alle generazioni, soave e solenne, dimentica degli uomini che l’hanno attraversata.

Alle spalle della città, della quotidianità sta la fabbrica ed il cicaleggiare formichiero dei suoi occupanti che la vivevano, la respiravano, ne morivano.

E’ una storia di fatica e licenziamenti, di morti bianche ed alti forni, di operai e famiglie tirate su a pane e lavoro, di guerra e miseria, di amicizie gomito a gomito a sferragliare, di sindacati.

E’ la storia di Fausto, figlio di Fausto, nipote di Fausto, e di Assunta, la bella operaia, che sembrava una madonna, con tre seni, di padroni come Paride Pietrasanta, di lotte e rivendicazioni, di fascismo e di fascisti.

Lungo pizzo, in piedi, al centro, dietro una sedia umile, alle spalle gabbie da pollaio, illuminate da flebili lampadine, a formare un piccolo muro di passato, dal sapore genuino e antico, vero, sincero.

Ogni tanto parte l’audio con le registrazioni che lo stesso Celestini ha raccolto nei due anni che hanno preceduto questo monologo di interviste e voci di anziani lavoratori con negli occhi luccicanti ancora la fabbrica, con la effe maiuscola, che era casa, amici, famiglia, chiesa e religione.

Si aprono parentesi, rotonde, graffe, graffianti, si chiudono storie, se ne aprono altrettante, bolle di sapone fuori dal tempo, ingialliti ritratti che sembrano, attraverso le parole di Celestini, prendere nuovamente vita, riassaporare il respiro affannato dell’età, cadere, sorridere, rialzarsi, piangere.

Voto 8 

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