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Cesar Brie
Albero senza ombra
Testo, regia e interpretazione Cesar Brie, musiche Pablo Brie e Manuel Estrada, scene e costumi Giancarlo Gentilucci e César Brie, produzione Fondazione Pontedera Teatro
All’Istituto Francese, prima nazionale dall’11 al 15 maggio 2010 per il Festival Fabbrica Europa 2010

 




                     di Tommaso Chimenti


Emilio Fede dice che non se ne può più di Saviano e della sua lotta con le armi della parola alla Camorra. Noi, invece, ne vogliamo sentire ancora. Vogliamo continuare ad ascoltare Beppe Grillo e Sabina Guzzanti, Daniele Luttazzi e Giulio Cavalli, Travaglio e Dario Fo e Bebo Storti, Report o Santoro, che sia Don o Michele. Un Albero senza ombra è una società senza memoria, che lascia passare l’acqua senza tenerne le gocce, senza ricordare il passato, senza ricercare la giustizia, senza capirne i passaggi, le forme, i percorsi, i destini. Un mondo anestetizzato, senza società civile, dove tutto può accadere perché tutto è contemplato, assuefatti al peggio, sdoganato, dopato, tutto è permesso, niente è vietato. La bilancia perde sempre dalla stessa parte e la Giustizia è cieca o quantomeno bendata. Le regole ci sono ma non valgono, non sono rispettate. Un’altra Marzabotto, un’altra Sant’Anna di Stazzema, altre foibe. Quanti massacri nascosti nella polvere del dimenticatoio, eluse dai media, messe sotto il tappeto della disinformazione. Cesar Brie ci ha messo la faccia (assieme al medico legale Alberto Brailovsky, grazie al quale sono cominciate le ricerche e che adesso rischia il carcere e la vita). Ha lavorato un anno e mezzo attorno alle notizie che arrivavano dalla giungla. Ha intervistato i sopravvissuti di questa strage sconosciuta, immersa nel fitto della boscaglia. Una strage dimenticata di campesinos avvenuta l’11 settembre 2008. Quanto vale un contadino boliviano? Neanche lo sforzo di un trafiletto. Cesar ha pagato la verità. La sua ricerca lo ha portato ad essere minacciato, colpito, picchiato. E’ dovuto scappare da Sucre dove viveva con la famiglia da venti anni e tornare in Argentina dalla quale, il cerchio si chiude, era scappato dalla dittatura quando aveva diciannove anni. Solo sulla scena, Brie si veste di tutti i personaggi della vicenda, indossa gli abiti dei soldati, delle madri, dei contadini esasperati senza futuro. E ne dona la sua versione a metà tra il sogno colorato e la cruda realtà. Attorno le foglie secche delimitano il passato bruciato dal presente. Camminandoci sopra, come una frontiera, un limite, un destino. Dalle foglie usciranno i cappotti che saranno le figure che Brie resusciterà, le fotografie in bianco e nero incassate nella farina gialla di mais, la stessa per la quale i campesinos hanno combattuto e sono morti. Le corde cadono dall’alto come contrappesi a farne carrucole e cappi. I cadaveri sono cenci bagnati nel fiume gocciolante di un secchio. Tutti i deceduti amavano la vita, i suoi colori, i profumi, le piccole, parche gioie quotidiane. E Cesar racconta con voce cronachistica, prima di lanciarsi in balli frenetici a scacciare la morte, la paura, la disperazione. “L’albero senza ombra” è il fusto del caucciù, dal quale si estrae la gomma. I suoi rami sono radi, lavorarci sotto è un mestieraccio, un massacro di schiena e sudore. I contadini lottano per avere la terra da coltivare, terra che è cibo, presente e futuro. I latifondisti assoldano per venti euro al giorno sicari e squadristi provenienti dal Brasile. Un sacco in alto rotea, ondeggia avanti e indietro come punching ball da boxer. Ne esce una lingua gialla, uno strato che sarà il fondale e il terreno del racconto, che si fa fiume e terra. Come nella precedente piece Odissea ritorna forte e potente il tema dell’emigrato, non tanto geograficamente, quanto dell’animo, del sentire: “Sembra che non siamo mai del posto dove siamo”. Un essere apolidi perché non degni, un essere profughi perché scacciati dalla propria terra, non riconosciuti dai governi. Ora Cesar è il capo delle squadre della morte, perché, in fondo, “i morti sono tutti uguali”. I campesinos sono i nostri partigiani. Cesar Brie in un incontro informale mi dice che la Bolivia di oggi è ben rappresentata dal romanzo “La Malora” di Beppe Fenoglio. Racconta lo stesso agguato, lo stesso attacco, la stessa giornata di dolore da più punti di vista. E nelle sue parole è come se un altro attacco, questa volta concentrico e verbale, dialettico e sillabico si concentrasse attorno al tema, al tempo fermato dalle pallottole. Come in una trance da sciamano a rievocare gli spiriti che sono rimasti nell’aria a parlare, a lamentarsi, a domandare, per ristabilire il confine tra il sogno e la realtà, tra l’incubo e la giustizia. Gli ultimi attimi sono vissuti con distacco e distanza dai caduti: raccontano la propria morte con lucidità, senza il dolore dell’attimo, ripercorrendo i motivi del loro essere lì. E fa ribrezzo sentire che i preti che uccidono, dando il colpo di grazia. Che i dottori (forse si sono scordati il giuramento di Ippocrate, come avrebbero voluto imporre a quelli italiani denunciando gli immigrati irregolari bisognosi di cure mediche) che lasciano morire dissanguati gli indios colpiti dalla polizia, i dottori collaborazionisti con i poteri deviati, medici che falsificano autopsie, dottori assassini che stilano falsi referti per i deceduti, che non prestano i medicamenti necessarie, che non dichiarano invalidi gli infermi in sedia a rotelle. Viene in mente il G8, il caso Cucchi. Non siamo poi così lontano dalla Bolivia.

Voto 8 

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