All’attività principale di musico ed artigiano della ballata d’impegno da sempre Francesco Guccini ha affiancato un
contraltare letterario caratterizzato da un’indubbia capacità affabulatoria, la stessa che il cantautore modenese, classe 1940, ha profuso sul palcoscenico dove, ormai da decadi, tra una canzone e l’altra si sono udite riflessioni, prediche, aneddoti e squarci di varia umanità. Partorito dopo Croniche epafaniche e Vacca
d’un cane, questo Cittanòva blues costituisce anche l’ultima parte del romanzo memoriale che da anni Guccini va scrivendo in una riuscita mescolanza di citazioni dotte, sprazzi d’umorismo, grammelot, forestierismi vari e, ovviamente, dialetto – non sembra un caso se l’ultima fatica gucciniana su carta si conclude con un intrigante dizionario di parole ed espressioni tipiche della sua terra –. Dopo le atmosfere appenniniche e modenesi in Cittanòva blues la trilogia gucciniana va a chiudersi in una Bologna raccontata per fotografie ‘scattate’ tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta. La parte del leone ovviamente la fanno gli anni Sessanta, i dinamici anni del boom economico, quando nelle tasche dei giovani d’allora ristagnavano poche lire, ma tutto era marcato da un desiderio di scoperta e condivisione oggi ignoto ai più, e si diffondevano i primi gruppi musicali, che allora non si chiamavano band ma autarchicamente complessi. Guccini racconta e
tratteggia a nostro uso e consumo copiosi squarci della sua Cittanòva
coeva e della sua generazione di allora, una di quelle che nel secolo scorso si
è maggiormente impegnata per cambiare il mondo, sognando e lottando, talvolta
anche commettendo alcuni errori, qui ritratta in movimento, senza nostalgie né
celebrazioni di sorta.
Francesco
Guccini, Cittanòva blues (Mondadori) 2003
Voto
8