A ventitre anni di distanza dalla prima uscita in
italiano - era il 1983, quando Studio Tesi di Pordenone lo dette alle stampe,
con la traduzione di Silvio Ferrari - Il ritorno di Filip Latinovicz
di
Miroslav Krleža, fa il suo reingresso nel mercato
librario italiano. Il merito è della Zandonai di Rovereto, agile casa editrice
trentina, assai sensibile a quelle voci che si collocano a cavallo
delle frontiere fra stati, lingue, culture, generi. E lo fa con spirito, oserei
dire se il termine non fosse fin troppo abusato, missionario. Ecco quanto si
legge nell’autopresentazione del catalogo: “Animata dall'idea di sconfinamento,
la casa editrice Zandonai intende contribuire al
dialogo fra culture e discipline differenti attraversando ed esplorando con la
passione del racconto territori, saperi e generi letterari. Lo scopo è quello di comporre un catalogo dove letteratura e arti
visive, filosofia e architettura, storia e politica si intreccino fra loro e
disegnino nuove mappe interpretative. Libri capaci di tessere
una rete che afferri e ospiti - pur nel rapido flusso che oggi caratterizza le
varie forme della cultura - le nuove e complesse manifestazioni della realtà
che ci circonda”.
In
parole povere una sfida niente male, in un momento in cui la rete, quella
telematica, sembra fare il vuoto tra i lettori. Ma, appunto, sembra, perché (lo
dicono varie ricerche effettuate sul campo) il numero dei lettori, al contrario,
non sta affatto scemando. Sulla rete infatti, la
cosiddetta navigazione a 360 gradi dettata da curiosità e da un vagare senza
meta o come mosche impazzite è prassi iniziale, dettata dalla curiosità, ma poi
subentra il gusto della ricerca e della lettura, e quasi sempre si tratta di
letture comparate. Ciò non toglie che per una casa editrice di oggi, che,
peraltro, in catalogo non ha banalità che le permettano
di fare «poggio e buca», di grande scommessa si tratta, vista l'aria da basso
impero che si respira un po' ovunque.
Per
concludere con l'Editore e venire al nostro romanzo,
ricorderò solo alcuni dei nomi che danno lustro agli amici trentini (siamo
amici di chiunque si occupi di libri!): da Balzac a Schelling, da Christine Lavant
a Walter Friedrich Otto,
da Gropius a
Forti, da Vigolo a Heiner Muller, nonché una vasta schiera di autori, diciamo
così ex jugoslavi - sloveni, croati, bosniaci, serbi ed israeliti slavo - meridionali,
tra cui Pahor,
David, Albahari,
Veliki, Velikovi, Brina Svit,
mentre sono in uscita Jergovi, Ti’ma, Kova e l'attore
e poeta Rade Erbed Ija...
A
differenza della precedente edizione, questo «Ritorno di Filip Latinovicz» presenta due interessanti novità. La prima è costituita dalla prefazione del più' noto saggista di
quelle terre in Italia: Predrag Matvejevi,
già autore di uno stupendo libro-intervista con Miroslav Krleža
alla fine degli anni Sessanta (metterlo
in circolo, tradotto, sarebbe un ulteriore contributo al fine di farsi una più
approfondita conoscenza dello scrittore di Agram e
del clima culturale e politico della Jugoslavia dell'epoca. Matvejevi
ripercorre in sintesi la lunga e non poco travagliata esistenza del Krleža , menzionandone gli
incontri e gli scontri politici, culturali, ideologici; con il che aiuta il
lettore a meglio comprenderne il pensiero e la collocazione.
La
seconda novità, invece, oltre a dare al romanzo una dimensione a dire poco
immensa, dovrebbe portargli in dote un non indifferente numero di lettori in più.
Sto parlando della frase, pubblicata in quarta di copertina, che il più grande
filosofo del Novecento, Jean Paul Sartre,
disse allo scrittore zagabrese al loro primo incontro nel 1960: Il suo Filip
Latinovicz, pubblicato sei anni prima del mio romanzo “La nausea”,
se fosse stato tradotto in francese qualche anno prima, mi avrebbe provocato
l'accusa di plagio. Perché Latinovicz è un vero
romanzo esistenzialista, che lei ha scritto prima e meglio di me. Frase che, detta dal padre dell'Esistenzialismo,
in teoria gli dovrebbe spalancare porte su porte....
Ebbene,
rileggerlo a distanza di tanti anni (e in età, ahimè, più che matura) in una
lingua che mi e' più congeniale dell'originale, che
comunque conosco a menadito, non può non farmi dire di essermi (ri)trovato, in
effetti, al cospetto di un grande romanzo esistenziale, nato oltre tutto non
nella Parigi sul finire dei Trenta, ma nella Pannonia degli inizi di quel
decennio, con tutto ciò che ne deriva e consegue in tema di clima, frequentazioni,
echi, abiti mentali. Del resto, non è per caso che il Latinovicz
ha conosciuto decine e decine di traduzioni (credo in
oltre quaranta lingue) in tutta Europa e nel mondo.
Ma
nella Jugoslavia ? monarchica e con la sinistra fuorilegge - dell'epoca, come venne accolto?
Silvio Ferrari,
che definire solo come traduttore, quantunque straordinario, è
non rendergli il giusto merito (mi permetto di suggerire la lettura, almeno di “Il
dio Marte croato”, “Michelangelo Buonarroti” e “Le Ballate di Petrica Kerempuh”
tutt'e tre del Krleža ) scrisse nella prima
introduzione: Il romanzo ha avuto vasta, immediata e durevole eco nell'allora
Jugoslavia, diventando un'opera ?esemplare?, un testo paradigmatico della
creatività krležiana e, inevitabilmente, un modello
letterario nazionale per le sue implicazioni narrative e stilistiche, e per gli
sviluppi successivi della letteratura di quel paese?. Si tenga presente che già'
Miroslav Krleža ra la personalità letteraria e
teatrale più importante del Paese: amato-odiato nel suo campo ideale e
ideologico (una sinistra trinariciuta) e
semplicemente avversato dai vari mondi etnocentrici e dalla chiesa. Quanto alla
suddetta esemplarità, scrive il Ferrari che essa è doppia. Da un lato
l'avvenuta acquisizione da parte dell'Autore di tutti gli strumenti espressivi
della letteratura europea a lui contemporanea; dall'altro l'aspirazione a
inserire in quella stessa letteratura tutti i fermenti originali e autoctoni di
quel magma primigenio, torpido e ostico che costituisce il cuore del libro: la
brutale, antica novità pannonica, non riconducibile al corso razionale della
storia, ostinatamente inerte, tragica perché da sempre esclusa da qualsiasi
sommovimento. Vale a dire il mondo contadino che, sostiene Krleža, si estende dalla Pannonia alla Siberia e giace nelle
paludi da millenni, palude esistenziale a propria volta, falciato
periodicamente da pestilenze e guerre di rapina, senza mai opporre resistenza
al corso degli eventi.
Nella
postfazione, Ferrari, quasi (anzi senza quasi) si scusa per avere sottovalutato,
quando scrisse la presentazione dell'edizione del 1983, nell'avvertenza al
lettore italiano, la qualità e la valenza autonoma dei personaggi necessari a
intendere la natura malata e fragile dell'uomo Filip soprattutto nel suo
rapporto con il mondo e con l'universo femminile (...)..
E aggiunge: (...) ero rimasto condizionato da una specie di assillo, quello di
mostrare a ogni costo la parentela di Krleža narratore e romanziere con i maggiori
esponenti della letteratura europea occidentale. Anche per evidenziarne una
sorta di affinità precoce, persino profetico-intuitiva,
come nel caso del tema dell'alienazione e dell'angoscia esistenziale. Caro Silvio quante volte ne abbiamo parlato... - non
sono gli scrittori a mancare agli appuntamenti, specie quando si tratta di
grandi scrittori; ma le società' letterarie e gli editori. Se Krleža è arrivato in Italia con mezzo secolo
di ritardo, lui non ne' ha colpe. Del resto, quanto ci hanno messo Svevo e Tomasi Di Lampedusa,
che ancora oggi non pochi ambienti letterari e accademici del Belpaese
considerano poco italiani!
Voto
8