Poche signore del rock hanno dimostrato nel tempo l'insostenibile carisma di Patti Smith: musa di riferimento del movimento punk ed influenza primaria di più di una generazione di musiciste rock, cantautrice, poetessa, giornalista, scrittrice e pittrice, un'artista completa nella sua poliedricità e nell'intensità delle molteplici manifestazioni della sua arte. La Smith, classe 1946, continua a dimostrare che gli anni non hanno minimamente scalfito la primigenia, lirica potenza espressiva della sua voce: con Gung Ho, il suo ultimo album (l'ottavo in carriera), comincia a mostrarcelo fin dalla prima traccia, una splendido ed epico rock che s'intitola non a caso One voice, e comincia a marce basse, per poi distendersi e catturare in progressione. La maggior parte dei tredici brani di Gung Ho è costituita da suggestive ballate, dove la co-autrice dell'indimenticabile Because the night (scritta a quattro mani con il Boss) soffonde l'impatto pronfondo delle sue ottave coadivata da una band davvero all'altezza: i fidi compagni di viaggio Lenny Kaye (chitarre) e Jay Dee Daugherty (batteria), coadiuvati dalla chitarra di Oliver Ray e dal basso di Tony Shanahan. E' un disco di Patti Smith e dunque non sorprende che la track list presenti un'impeccabile livello testuale, neppure l'ombra di un episodio minore o di un brano fuori luogo: tredici-canzoni-tredici per altrettanti messaggi-poesie-proteste. Patti Smith si muove adeguandosi abilmente alle molteplici atmosfere presenti nel disco: dalla scarna essenzialità di Lo and beholden, che lascia il passo alla sincopata e pressante Boy cried wolf, cui segue il ritmo new vawe di Persuasion e, a ruota, il contagioso giro di basso che colora l'ombrosa Gone pie, altra traccia, nuova storia. Il disco continua con una delicatissima ballata, China bird, intensa tanto da far male: ad un dipresso la Smith ci spiazza di nuovo con il grintoso rock di Glitter in their eyes, con un signore del calibro di Michael Stipe a cantare coretti non indispensabili (ma ci ha tenuto a cantarli ugualmente). Già finiti tutti i possibili registri? Assolutamente no, perché arriva pure la splendida Strange messengers, un reading poetico in musica di otto minuti, che fa il paio con la conclusiva title track dilatata a quasi dodici minuti, nella quale Patti Smith ci parla come lei sa fare addirittura di Ho Chi Minh e del VietNam. Non mancheremo certo di segnalare anche la struggente Grateful, o la nenia in progressione di Upright come, o lo sferzante rock vecchia maniera di New party (ancora una splendida ascesa di ottave tra sprazzi di punk), o infine l'intensità folk di Libbie's song. Non mancheremo di farlo semplicemente perché tutti i brani di questo splendido disco sono degni di citazione, ed anche perché con Gung Ho siamo probabilmente di fronte, se non al migliore, all'album più compiuto di Patti Smith, senza esagerazioni.
Patti Smith, Gung Ho [Arista 2000]
Voto
9