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Scanner - musica
 


Musica dei Popoli 2001
La Festa e il Rito
XXVI edizione
A Firenze, dal 5 al 26 ottobre 2001

 




                     di Fabio Norcini


Musica dei Popoli 2001
 Musica dei Popoli 2000
Festival del Film Etnomusicale 2000
 Fosco Maraini


Musica Dei Popoli, il primo festival etno dal vivo in Italia, giunge quest'anno alla sua XXVI edizione. da tantissimi anni rivendica l'esatto opposto della globalizzazione: la conoscenza e l'approfondimento della tradizione, nel rispetto totale delle provenienze e delle appartenenze. che e' agli antipodi della world music, della "contaminazione", del solito atteggiamento mentale occidentale colonizzatore per il quale percepire una cultura "altra" significa automaticamente inglobarla e fagocitarla. fedele alla sua impostazione di base, anche quest'anno MDP propone un tema, "la festa e il rito", che pur nell'impossibilità di contestualizzare al meglio certe esperienze (l'Auditorium Flog non può trasformarsi in monastero tibetano o in una scuola coranica di samarcanda) cerca di riportale con la loro integrità. altamente spettacolare, da Samul Nori di Corea (venerdì 5 - sabato 6 ottobre 2001) a Ile Aye del Brasile. dieci spettacoli, dal 5 al 26 ottobre, che porteranno a Firenze un campionario inedito di musiche e danze che svariano dai tuareg al klezmer, dai paesi baschi alla trance marocchina. Musiche dell'altro mondo. Ci permettiamo di prendere in prestito da Massimo Fini, e da un suo bell'editoriale il tema conduttore di Musica dei Popoli di quest'anno. E parlare di festa e di rito, di "culture belle, lievi, non aggressive, ma fragili" come quelle presenti in questa, e nelle ventisei sue edizioni passate, ha proprio a che fare con ciò. Perché adesso, come benissimo scrive Fini "non c'è più nulla dell'umano, e di ciò che aveva regolato, fino a non molto tempo fa, la vita dei popoli". La follia attuale, che si munisce di scudi extraterrestri per essere colpita al cuore da temperini, cosa ci racconta se non una presunta civiltà (quella delle borse?) opposta ad una presunta barbarie che si alimenta su fanatismi e fondamentalismi da essa stessa fomentati. Che senso ha, dunque, parlare di popoli? E soprattutto della loro musica? E ancor peggio delle loro tradizioni? Dove sono? In questa immensa elaborazione di lutto, opificio a cottimo di distruzione di qualsiasi valore, dove la vita è una cifra in bilancio, una voce di budget, che senso ha parlare di festa e rito? Di veglie intorno al focolare, acceso da mani nere o bianche non ha importanza? Quale è il focolare? Chi se ne frega delle danze rituali con le meravigliose maschere dei Dogon, delle quali il caro Vittorio Franchini ha scritto un folgorante saggio, o delle feste nuziali uzbeke di cui ci affabula Jean During, consulente di lusso di questa edizione, nella quale palpita il cuore di un popolo che cerca di coinvolgere con nostalgia e estasi? Eppure è questo, che da ventisei anni a questa parte, fa Musica dei Popoli, una scommessa di cultura nata nel cuore del movimento operaio dal dopoguerra, dai lavoratori della Galileo, un'industria che ha fatto grande Firenze. E che con la FLOG (Fondazione Lavoratori Officine Galileo) è abituata a ardue sfide. Che in mezzo a grandi difficoltà di ogni genere riafferma con forza, con il nuovo presidente Andrea Bellucci e affidata ad un etnomusicologo come Leonardo D'Amico che ne è direttore artistico, le sue linee di fondo: difesa delle radici, riconoscimento delle culture non in nome di multietnicità o contaminazioni, che vanno dirette all'omologazione, ma che nel rispetto della diversità portino alla reciproca comprensione. Così, accanto alla musica ebraica rilanciata negli USA da Khevrisa, gruppo storico di klezmer ci aspetta una vera cerimonia musulmana "Lila" degli Gnawa del Marocco. Alla mistica dei monaci tibetani di Sera Je fa da contraltare la supererotica e carnale carnevalizzazione della "Casa della Vita" brasiliana di Ile Aye, dalle acrobazie percussive, simboliche e inquietanti, dei coreani Samul Nori si trascorre ai gioiosi berci e battimani dei Tartit, tuareg del Mali. Si parla di festa e di rito, sempre, ma nell'esilio. Tale sembra essere la condizione permanente di chi ancora è capace di dire no, che ha bisogno "di rimarginare ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esigli, si scalda a lui come chi ha freddo al sole". (U. Saba "Teatro degli Artigianelli")

Voto 8 

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