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Ultima Cena
Coreografia Virgilio Sieni
Progetto Accademia sull’Arte del Gesto. Assistenti: Ramona Caia, Caterina Poggesi
Visto il 5 luglio 2011 al Cenacolo di Piazza Ognissanti, Firenze

 




                     di Tommaso Chimenti


Il progetto si chiama Grande Adagio Popolare. L’acronimo, voluto o soltanto dolente, esce come GAP. “Mind the gap” dice solerte la metropolitana londinese. Che infatti viene apostrofata come underground. Sotterraneo, come le situazioni limite, border line. Il gap è la mancanza, l’handicap, quello che non c’è per raggiungere la soglia, il lembo di terra, la “normalità”. Il colmare il gap è il lanciare il cuore oltre l’ostacolo, scavalcare la siepe per cercare un posto al sole. Il limite da tranciare è quello del condiviso, del ritenuto lecito, appunto coerente, sociale. Quattro appuntamenti: l’Ultima cena il 5 luglio con un gruppo di tredici uomini di etnie diverse, il 6 al cenacolo di San Salvi di Andrea Del Sarto con un danzatore non vedente, il 7 al Cenacolo di Fuligno del Perugino con gli anziani, l’8 al cenacolo di Sant’Apollonia di Andrea Del Castagno con tre ragazzine di undici anni. Bambini, anziani, non vedenti sono marginali, categorie non a rischio ma tenute, ognuna in modo diverso, sotto cappe di vetro, diversi, come gli stranieri protagonisti dell’Ultima Cena, riconoscibili, alieni non tanto da accettare quanto da tollerare, nicchie nelle quali specchiarsi per ritrovarsi più consoni, partecipi, fieri della propria società costruita attorno a te, come dice un spot di frutti cartacei e bond, purtroppo senza James. Sieni frantuma il limite tramite la bellezza riuscendo, da molto tempo a questa parte, a unire lo splendore dell’arte con, sembra ossimoro, la superficiale povertà delle compagnie al margine che ha costruito. Scolpisce nuove linee, spariglia le carte. Ed allora davanti al cenacolo di Piazza Ognissanti, all’affresco del Ghirlandaio, arrivati qui dopo l’attraversamento nel chiostro che tutto risuona e tace, di fronte al Cristo ed a i suoi dodici apostoli, eletti ma comunque pescatori poveri ed in conflitto con le autorità romane del tempo, stanno tredici uomini provenienti da lunghi viaggi della speranza qui da noi alla ricerca di un futuro, né migliore né peggiore, ma solamente di un futuro, di un tempo da poter veleggiare e nel quale muoversi, stare. Albania, Camerun, Angola, Serbia, Colombia, Ecuador, Perù, Cina, Sri Lanka. Le facce si stagliano come le loro magliette multicolori, e la luce si somma ad altra luce. E non è affatto blasfema questa trasposizione terrena, umana. Chi è Gesù? Non ha alcuna importanza. Anzi, tutti lo sono, a rotazione. Si danno le mani, si sorreggono, si aiutano, si cullano, non si lasciano andare dopo un inizio dove sembrano confrontarsi, fronteggiarsi. Poi si tendono, si tengono, si appoggiano, diventano una cosa sola. C’è fatica, si tirano su, si issano, si alzano, si portano, fino a quella ricchezza di foglie d’oro grattugiate che dal tavolo fanno cadere, quella ricchezza che rappresentano ma che noi, eurocentristi, non riusciamo a cogliere troppo concentrati su quello che perderemo rispetto a quello che possiamo prendere. Pare davvero una catena umana della speranza, un passaggio di consegne solidali, uno sbarco, di quelli che “rovinano” le ferie a Lampedusa, per noi che sbarco è ancora quello in Normandia. E sì, ci sentiamo migliori dopo aver assistito a queste performance sociali-antropologiche. Colmano le nostre mancanze, il nostro gap emotivo rispetto al contemporaneo. Ci stringiamo nel petto, applaudiamo, per operazione più che per la tecnica, ci sentiamo sollevati fin quando c’è qualcuno come Virgilio Sieni che avvicina i mondi lontani e li fa collimare, in uno stesso spazio fisico, almeno per qualche ora.

Voto 7½ 

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