Le torri trasparenti, di Giacomo Fanfani, presentazione dello spettacolo ideato e diretto da Fulvio Cauteruccio, 2007
Le torri trasparenti, di Giacomo Fanfani, recensione dello spettacolo ideato e diretto da Fulvio Cauteruccio, 2007
Freddo fuori e freddo dentro. Il
gelo all’interno della, a questo punto, ex fabbrica Signorini, fa il paio con la
dissoluzione da una parte della famiglia e dall’altra dei valori occidentali
portati in scena dal giovane gruppo attoriale diretto da Fulvio
Cauteruccio, in questi giorni premiato assieme ai Krypton
a Napoli con il Premio Girulà. Il pubblico disposto a quadrato è il ring all’interno
del quale si muovono, in linee ed aggrovigliate, tre sorelle occidentalizzate,
tuta da ginnastica e Kellogs a colazione, una madre
fallimentare, Lorella Serni capace, una sorellastra
musulmana arrivata vergine al matrimonio ed un fratello che ha somatizzato la
realtà, perché sodomizzato da essa. E Daniele Bartolini, propulsione e braccio
ed allievo del regista dal quale ne ricava e ne estrapola modi di recitazione,
ha tutta la rabbia giusta e distruttiva per affrontare il tema nichilista da
post punk dei nostri giorni. Una violenza talmente aggressiva verso l’esterno
che finisce per implodere invece che esplodere. Con il proprio annientamento,
che non è suicidio. Al centro un quadrato al neon dove stanno piccoli
parallelepipedi trasparenti con numeri da sfilata attaccati sopra. Le torri trasparenti
siamo tutti noi, contenitori vuoti di ideali stanchi, di valori imbevuti. Le
torri sono schematizzate e piene di angoli e spigoli, le torri sono alte e
proprio per questo possono cadere meglio, le torri sono vulnerabili al vento. Le
persone non hanno qui nomi ma sono solo numeri: intercambiabili e
dimenticabili. Fanno volume, occupano spazi, ma non sono. Sembrano soltanto
perché producono un’ombra. Anche quella però cancellabile con il buio di uno
scoppio. In alto passa minaccioso un aereo giocattolo e la sequenza ritmata e
sincopata, anche stoppata di un filo a mezz’aria di un giocattolo in un falso
che richiama solamente l’11 settembre ma senza scontro, sorvola soltanto la
situazione già compromessa senza darle il colpo finale che nella realtà abbiamo
visto non ha portato ad alcun beneficio ma anzi è stato controproducente, ha in
sé quel gioco macabro e grottesco, surreale e feticista che fa sobbalzare. Non
è un segno ruffiano ma è poesia perché scardina, scavalcandoli, cento, mille
passaggi intellettivi. Nel testo di Giacomo Fanfani
la famiglia scivola nel termine società e s’affianca e s’affranca e si simula
come in un piccolo laboratorio le dinamiche del melting pot, ormai
irreversibile. Qui convivenza e tolleranza hanno facce buie e rughe da Burri, occhiaie
spesse e ferite profonde. Il coro delle ragazze, Laura Bandelloni,
Irene Barbugli, Francesca Cipriani, Irene Mirabedini, s’affanna in un continuo scontro, a tratti,
inutilmente, volgare, ma dimostrano pasta e sostanza, materia su cui poter
lavorare. Dopo l’Orestea e con un maestro come il “carne e sangue” di
Fulvio Cauteruccio possono prendere il toro per le corna. O anche per
qualcos’altro.
Voto
7