Compagnia Krypton,
Terroni d'Italia, presentazione, 2011
Compagnia Krypton, Terroni d'Italia, recensione, 2011
"Chi odia i terroni, chi canta Prévert,
chi copia Baglioni” (Rino Gaetano, “Il cielo è sempre più blu”).
"Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo, con la catena d’ oro, la pasta al pomodoro, tondo basso e moro, di sicuro un uomo vero. Cordiale e pasticcione,
buono e chiacchierone, tenero e padrone, furbo e intrallazzone. Non gli togli la pancetta, la vendetta, la cenetta, la Pasquetta, l#8217;Italietta, la mamma, la pizza, l’insalata, la canottiera bucata” (Skiantos, “Italiano Terrone che amo”).
C'è sempre un Sud a sud di ogni Sud. Sgorga umanità a piene mani il nuovo lavoro di Fulvio Cauteruccio. In Terroni d’Italia è un Roccu u stortu dei giorni nostri, cresciuto, che ha avuto modo di studiare, di capire, di leggere l’oggi con le informazioni di ieri. L’immagine dell’immigrato porta con sé ancora quella patina di nostalgia mista a ingenuità che fa simpatia, che fa
bianco e nero, che ci rende solidali con chi rimane, di fatto, in una posizione
svantaggiata, più debole, in disparte. Si parla di Unità d’Italia ma anche di Sud, di immigrazione, di italiani, qui veramente
“brava gente”, di persone che ce l’hanno fatta, con caparbietà e onestà, costanza e testardaggine come Giuseppe Mazza, autore del plot autobiografico sulle tracce del quale la penna teatrale
di Cauteruccio ha assestato colpi d’ascia e carezze, mozziconi ed esaltazioni. Ne esce fuori un percorso dove la storia piccola, personale di un ragazzo d’origini modeste, trasferitosi come postino al Nord, incrocia la Storia grande, una fessura dentro la Grande Muraglia.
Passano Nino D’Angelo e Maria Nazionale, meridionali che cantano l’unità dello Stivale, contrapposti a Pupo ed al (ram)pollo di casa Savoia (buttati fuori dalla porta principale e rientrati dalla finestra dei talk show e dei reality). Il “nostro” Pippo si racconta, sorridendo delle proprie miserie, guardando il pubblico, ad uno ad uno, come fossimo in casa d’amici, con semplicità, con parole disponibili, in un italiano infarcito di dialettismi slangati che rendono il racconto una sequenza continua di immagini, cariche e tenui come un filmato seppiato, una carrellata di personaggi dal sapore arcaico, che fanno sorridere per tenerezza, mai per pietismo. Il pretesto sono le strade intitolate agli uomini del Risorgimento che fanno esalare dal Passato recente nomi e fatti, vicende e personaggi. E la storia di Pippo si mischia indelebile a quella di Fulvio cancellandone i contorni: emigrati entrambi, il primo voleva fare l’attore, mentre il secondo c’è riuscito. Quasi una sorta di passaggio di consegne, una rivincita sociale, una piccola vendetta dopo tanti anni lontano da casa, la ertificazione dell’utilità della sofferenza, delle rinunce, del dolore della lontananza. Qui, ce lo rendono, Giuseppe, Fulvio e Pippo, fusi in uno solo. Sembra di assaporare, vedendo la catasta di valige in partenza su treni zeppi, l’atmosfera che si respira al museo
dell’immigrazione di Ellis Island a New York, dove venivano stipati i nuovo cittadini americani prima di essere spediti, nuovi schiavi, dove serviva la loro forza lavoro. E’ una confessione da Libro Cuore, lontana dai patetismi, vicina alle cose piccole e spicciole, con inserti prima di quattro Garibaldini, camicia rossa ma numeri sul petto da Banda Bassotti, ora l’esilarante scena della matrona del Sud che spiega ai Savoiardi, muti e leggermente fessi, la ricetta degli spaghetti al pomodoro, metafora e parodia dell’arraffare e dell’appropriazione indebita che il Nord ha perpetrato nei confronti dello Stato delle Due Sicilie. Qui emerge, chiara e netta, la solidità acquisita da Laura Bandelloni, in un gramelot strascicato, in un dialetto sfaccettato, che ci fa sorridere, gioire, riflettere. C’è un’Italia unita con la forza e la baionetta, che ha costretto il Meridione all’esproprio, alla povertà, all’emigrazione, un’Italia unita nello Stivale che fa rima con Abu Ghraib o Afghanistan, d’immagini di morti trucidati solo perchè si opponevano all’invasore. Pippo, infatti, con Cavour riesce a malapena a mettersi a sedere per bersi un caffé, un caffè talmente amaro d’incomprensione da non essere bevuto ma che si rovescia a terra come il sangue dei compaesani. Povera Patria.
Voto
7½