Mario Perrotta, Odissea, 2007
Mario Perrotta, La Turnata, 2008
Mario Perrotta, Italiani Cincali, 2003
Scordatevi l’ultimo Ronconi. Dimenticate
le navi, i Proci, Itaca, le sirene. L’Odissea
di Mario Perrotta (che ha debuttato
all’ITC di San Lazzaro che l’ha prodotto) prosegue la ricerca cominciata con “Italiani cincali” e
portata avanti con “La turnata”. Un viaggio, non poteva questa volta stare
seduto sulla seggiola impagliata d’ordinanza da monologhista, che non è
piacere, non è volontà, ma costrizione, missione divina, baluardo popolare. La
condizione dell’eroe, Ulisse, proprio perché grandissimo fuori dalle mura
domestiche, lascia dietro e dentro di sé, negli affetti più cari, voragini ed
abissi di mancanze ed assenze. E Telemaco-Perrotta, il testo è in parte
autobiografico, squarcia il muro di gomma del silenzio, apre il baratro dei
ricordi, mette in piazza, in uno show nello show d’avanspettacolo, i panni
sporchi che nessuno ha lavato. Il moderno figlio di Ulisse, immerso in un’atmosfera
fiabesca di tanto in tanto stracciata da lampi urticanti di realismo, gigioneggia
in un cabaret pelvico e triste, pare Celentano ballando e molleggiandosi, tra
marcette e ritmi da allegra parata (al clarinetto Mario Arcari, alla chitarra
Maurizio Pellizzari, mentre in estate nelle repliche studio di Bassano del
Grappa, Massa e Roma c’erano stati i Tete
de bois), con l’esile scudo della faccia bianca da clown abbandonato di
cipria, rincorrendo in filastrocche canterine, in rime baciate il linguaggio
onomatopeico della musica. Perrotta (sarà il 9 dicembre a Radicondoli), ancora
magnifico e sicuramente cresciuto in un testo complesso a più sfaccettature
metaforiche, ora è un Pulcinella amaro, adesso Petrolini, ora seguace da disco
della “Febbre del sabato sera” adombrato in un cunto visionario, da “Bar sotto il mare”
di Benni, miscelando il mitologico, il biografico, il sociale. E la musicalità
dolce di consonanze come onde viene levigata dalla violenza del dialetto che sa
di sale e sabbia, di carene umide, d’alghe filamentose e cozze ruvide da aprire
come scrigni. Un sogno trasognato e opaco, un’Atlandide sprofondata nella
memoria e tornata a galla rugginosa e muffita, velato di una patina in bianco e
nero nostalgico, dolorosa senza pianto, dove si animano figure concrete ed
esseri che stazionano sul limite del sovrannaturale. L’“Antò delle cozze”, omerico,
come Mosè, ferma il Mare, che prosciuga i bagnanti delle loro storie, ad un
passo da uno tsunami di forza travolgente in un muro verticale d’acqua
imbonendolo al di là di una linea di demarcazione, Romolo e Remo, imboccandolo
di “mitili e non militi”. E la madre, penelopiana, vedova in nero ad aspettare
dietro le imposte chiuse, simbolo d’omertà atavica, è l’epifania della
sconfitta che ha ferito Telemaco.
Voto
8