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Odissea
Scritto, diretto e interpretato da Mario Perrotta
Prosegue la ricerca cominciata con “Italiani cincali” e portata avanti con “La turnata”. Con Mario Perrotta, Mario Arcari (clarinetto, oboe, percussioni), Maurizio Pallizzari (chitarra, tromba), musiche originali di Mario Arcari
Prima nazionale all’ITC Teatro di San Lazzaro dal 16 al 18 novembre 2007, in replica dal 21 al 25 novembre e dal 28 novembre al dicembre 2007

 




                     di Tommaso Chimenti


Mario Perrotta, Odissea, 2007
Mario Perrotta, La Turnata, 2008
Mario Perrotta, Italiani Cincali, 2003


Scordatevi l’ultimo Ronconi. Dimenticate le navi, i Proci, Itaca, le sirene. L’Odissea di Mario Perrotta (che ha debuttato all’ITC di San Lazzaro che l’ha prodotto) prosegue la ricerca cominciata con “Italiani cincali” e portata avanti con “La turnata”. Un viaggio, non poteva questa volta stare seduto sulla seggiola impagliata d’ordinanza da monologhista, che non è piacere, non è volontà, ma costrizione, missione divina, baluardo popolare. La condizione dell’eroe, Ulisse, proprio perché grandissimo fuori dalle mura domestiche, lascia dietro e dentro di sé, negli affetti più cari, voragini ed abissi di mancanze ed assenze. E Telemaco-Perrotta, il testo è in parte autobiografico, squarcia il muro di gomma del silenzio, apre il baratro dei ricordi, mette in piazza, in uno show nello show d’avanspettacolo, i panni sporchi che nessuno ha lavato. Il moderno figlio di Ulisse, immerso in un’atmosfera fiabesca di tanto in tanto stracciata da lampi urticanti di realismo, gigioneggia in un cabaret pelvico e triste, pare Celentano ballando e molleggiandosi, tra marcette e ritmi da allegra parata (al clarinetto Mario Arcari, alla chitarra Maurizio Pellizzari, mentre in estate nelle repliche studio di Bassano del Grappa, Massa e Roma c’erano stati i Tete de bois), con l’esile scudo della faccia bianca da clown abbandonato di cipria, rincorrendo in filastrocche canterine, in rime baciate il linguaggio onomatopeico della musica. Perrotta (sarà il 9 dicembre a Radicondoli), ancora magnifico e sicuramente cresciuto in un testo complesso a più sfaccettature metaforiche, ora è un Pulcinella amaro, adesso Petrolini, ora seguace da disco della “Febbre del sabato sera” adombrato in un cunto visionario, da “Bar sotto il mare” di Benni, miscelando il mitologico, il biografico, il sociale. E la musicalità dolce di consonanze come onde viene levigata dalla violenza del dialetto che sa di sale e sabbia, di carene umide, d’alghe filamentose e cozze ruvide da aprire come scrigni. Un sogno trasognato e opaco, un’Atlandide sprofondata nella memoria e tornata a galla rugginosa e muffita, velato di una patina in bianco e nero nostalgico, dolorosa senza pianto, dove si animano figure concrete ed esseri che stazionano sul limite del sovrannaturale. L’“Antò delle cozze”, omerico, come Mosè, ferma il Mare, che prosciuga i bagnanti delle loro storie, ad un passo da uno tsunami di forza travolgente in un muro verticale d’acqua imbonendolo al di là di una linea di demarcazione, Romolo e Remo, imboccandolo di “mitili e non militi”. E la madre, penelopiana, vedova in nero ad aspettare dietro le imposte chiuse, simbolo d’omertà atavica, è l’epifania della sconfitta che ha ferito Telemaco.

Voto 8 

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