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Pessoa. Since I've been me
Recensione dello spettacolo
Pessoa. Since I've been me
Regia, scene e luci di Robert Wilson
Felicità turbate
Di Tiezzi e Luzi
Roberto Mercadini
Felicità for dummies
Rimini Protokoll
La Conferenza degli Assenti
Teatro dei Gordi
Pandora
Leoni per il Teatro 2021
La Biennale di Venezia
Winston vs Churchill
Regia di Paola Rota
Nemico di classe
Di Nigel Williams
Fulvio Cauteruccio
La notte poco prima della foresta

 


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  07/10/2024 - 06:12

 

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Studio su Medea, recensione
“Medea e Giasone”, “Medea e figli”, “Medea Dea”
Regia di Antonio Latella, con Nicole Kehrberger (Medea), Michele Andrei (Giasone), Giuseppe Lanino (Medeios), Emilio Vacca (Alchimenes), Elaborazione drammaturgica: Federico Bellini, musiche Franco Visioli, luci Giorgio Cervesi Ripa, costumi Rosa Futuro e Tobias Marx, movimenti coreografici Rosario Tedesco, Produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Teatro Studio di Scandicci, inaugurazione stagione: 12, 13 e 14 gennaio 2007

 




                     di Tommaso Chimenti


Teatro Studio di Scandicci, Diversamente Parlando, stagione 2007
Scena Verticale, Dissonorata, 2007
Motus, Rumore rosa, 2007
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, presentazione
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, recensione
Gogmagog & The Playground, The Restaurant of Many Orders, 2007, presentazione
Gogmagog & The Playground, Ristorante dai tanti ordini, 2007, recensione
Giampiero Cicciò, Giovanna d’Arco di Borgo vecchio, di Gianni Guardigli, 2007
Compagnia Krypton, Picchì mi guardi si tu si masculu, 2007
Egumteatro, L’omossessuale o la difficolta’ di esprimersi, 2006


E’ una Medea animalesca e sanguigna quella messa in scena da Antonio Latella che si conferma regista culto, soltanto un passo sotto a Ronconi, ma soltanto per anagrafe. E’ spiazzante la decostruzione del linguaggio operata, la ritualità degli eventi, la naturalezza dei gesti dei due, più due in seguito, sulla scena. Non tre atti ma tre veri e propri spettacoli singoli. Tre ore complessive con gli attori sul palco sempre e soltanto nudi. Carne, corpi, materia, ciccia. La quasi assenza di suoni, tranne quelli gutturali come se Medea e Giasone fossero due uomini primitivi, all’inizio sembra un limite, ma la bravura di Nicole Kehrberger da una parte e del compagno, anche nella vita, il fiorentino Michele Andrei, dalla bellissima voce calda, rendono la mancanza di sillabe una ricchezza sul piano vorticoso degli atti. Ogni scena è dissacrante, aiutata dalle musiche indovinate ed innovative di Franco Visioli. Si comincia con una marcia nuziale che a mano a mano diviene elettrica ed elettronica con Medea che tiene, sorregge e si appoggia, tirandolo, il sesso di Giasone. La Kehrberger è muscolosa e androgina e culturista, perfetta per questo limbo che potrebbe essere l’Eden di Adamo ed Eva, senza suoni ma soltanto colmo di rumori primordiali, cavernicoli. Potrebbe essere “Il pianeta delle scimmie” o “2001 Odissea nello spazio”. Con dadi e bulloni in mano, in stile Ikea, costruiscono il loro talamo nuziale che diventa casa, piazza, alcova, ma anche gabbia, costrizione, sbarre. Medea è la prima eroina femminista della storia del teatro. Giasone viene schiacciato (Erika e Omar) dalla potenza della donna che non è né fragile, né debole né tanto meno succube e passiva. E’ invece una guerriera pronta a tutto. Ora sono scimmie alla catena, ora saltano e strillano come bertucce, ora le urla di dolore del parto, il piacere del sesso si fonde con il pianto. Nicole dà prova, da Premio Ubu, di contorsionismo, con una forza devastante mentre sposta e scaraventa le testate del letto in ferro battuto, oppure di estrema dolcezza e delicatezza quando, con pannolone e maschera da infante, alquanto inquietante, si muove di schiena con le movenze di un neonato. Lei balla la danza del ventre, lui con elmetto da guerriero, più simile a Sturmtruppen, (gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere) canta Celentano, poi giocano con le iniziali delle parole. Per lei l’alfabeto sono stilisti di moda, Armani, Bulgari, per lui paesi del mondo, Argentina, Bosnia. Il modo diverso di intendere il mondo. Medea si mette la testata del letto sulle spalle e la volteggia come fossero ali di aliante, la muove come mezzaluna in cucina, la piega di lato come timone di nave, la ruota come lancio del martello, mentre per lui è taglia erba, trattore e mitragliatrice. La donna viene racchiusa nello spazio casa, i giochi adolescenziali sono finiti e l’uomo serra la bara-cassa-gabbia mentre l’uomo si masturba e lei si punisce picchiandosi. Lei adesso esterna in greco antico, poi in tedesco ed infine urla, come leonessa che ruggisce alla savana intera, “Ich bin Medea”. Medea ha schiacciato l’uomo, ha relegato chi la voleva relegare, si è ribellata. Adesso deve ancora combattere contro altri maschi, contro i suoi figli, serpi cresciutele in seno. Come lupa con Romolo e Remo, a quattro zampe allatta i due neonati, Emilio Vacca e Giuseppe Lanino, splendidi giovani comprimari che si muovono come scimmie o cani prima succhiando famelici e violenti divoratori dalle mammelle della madre poi azzuffandosi nella ciotola-elmetto del padre. Animali con bisogni ed esigenze da animali. Uccidere per. Mangiare. Sopravvivere. I figli diventano come il padre, vanno alla guerra con il braccio teso ed il passo dell’oca, giocano passatempi che emarginano la donna, facendo divenire l’elmetto palla da rugby o pallone da calcio. Accanto al letto di Medea e Giasone si alza quello a castello dei due gemelli inseparabili, che sfocia nell’omosessualità, letto usato anche come trincea. Estenuante e complessa, nonché luminosa per intensità e bravura dei due, la coreografia appesi alle sbarre del letto in spericolatezze circensi da veri acrobati, atleti e ginnasti. Molta fisicità in questa danza ondeggiante dentro e fuori le sbarre del telaio del letto, aggrappati alle assi in acciaio vorticano contorti sospesi ad un filo sfidando la gravità. Caos calmo. I pargoli si fanno beffe del padre anziano, insultano la madre che, dopo aver dispensato parole in inglese, spagnolo ed arabo (grande preparazione della nostra) li uccide soffocandoli senza però alcuna violenza, senza armi, senza bisogno di sangue. E’ la madre Dio, è Medea Dea, che dà la vita e la toglie. Medea è l’Universo, l’Inizio, il Big Bang, è l’Attimo, la Partenza. Nell’ampio spazio vuoto della mente, tra i rimorsi e le ferite della vita, Medea vaga nel cimitero di maschere da infante, simili a Pisellino di Braccio di Ferro, (sembra una distesa di croci nei campo santo di guerra americani) mentre un lenzuolo al centro della scena si innalza al cielo come salvezza o cordone ombelicale. Il legaccio si scioglie e diviene fantasma, vestito da sposa mentre Medea-Nicole, sempre più impressionante e brava, esplode come trapezista in movimenti da Tarzan al femminile. I figli con i burattini in mano che li rappresentano, una delle parti più emozionanti dell’intero trittico, camminano doppi tra corpo ed essenza, astratto e carne in miniatura muovendosi all’unisono. Medea si riappropria dei propri figli (il finale di Emma Dante in “Vita mia”) cullandoli nel drappo mentre un Giasone ammiraglio raccoglie le maschere dei morti cantando un motivetto anni ’40: “Vivere senza malinconia, vivere senza più gelosia”. Senza parole. Soltanto lunghi applausi di riflessione: lo spettacolo 2006.

Voto 9 

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