Teatro Studio di Scandicci, Diversamente Parlando, stagione 2007
Scena Verticale, Dissonorata, 2007
Motus, Rumore rosa, 2007
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, presentazione
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, recensione
Gogmagog & The Playground, The Restaurant of Many Orders, 2007, presentazione
Gogmagog & The Playground, Ristorante dai tanti ordini, 2007, recensione
Giampiero Cicciò, Giovanna d’Arco di Borgo vecchio, di Gianni Guardigli, 2007
Compagnia Krypton, Picchì mi guardi si tu si masculu, 2007
Egumteatro, L’omossessuale o la difficolta’ di esprimersi, 2006
E’ una Medea animalesca e
sanguigna quella messa in scena da Antonio
Latella che si conferma regista culto, soltanto
un passo sotto a Ronconi, ma soltanto per anagrafe.
E’ spiazzante la decostruzione del linguaggio operata,
la ritualità degli eventi, la naturalezza dei gesti dei due, più due in
seguito, sulla scena. Non tre atti ma tre veri e
propri spettacoli singoli. Tre ore complessive con gli attori
sul palco sempre e soltanto nudi. Carne, corpi, materia, ciccia. La
quasi assenza di suoni, tranne quelli gutturali come se Medea e Giasone fossero due uomini primitivi, all’inizio sembra un limite,
ma la bravura di Nicole Kehrberger
da una parte e del compagno, anche nella vita, il fiorentino Michele Andrei, dalla
bellissima voce calda, rendono la mancanza di sillabe una ricchezza sul piano
vorticoso degli atti. Ogni scena è dissacrante, aiutata dalle musiche
indovinate ed innovative di Franco Visioli. Si
comincia con una marcia nuziale che a mano a mano diviene elettrica ed elettronica
con Medea che tiene, sorregge e si appoggia, tirandolo, il sesso di Giasone. La Kehrberger
è muscolosa e androgina e culturista, perfetta per questo limbo che potrebbe
essere l’Eden di Adamo ed Eva, senza suoni ma soltanto
colmo di rumori primordiali, cavernicoli. Potrebbe essere “Il pianeta delle
scimmie” o “2001 Odissea nello spazio”. Con dadi e bulloni in mano,
in stile Ikea, costruiscono il loro talamo nuziale
che diventa casa, piazza, alcova, ma anche gabbia, costrizione, sbarre. Medea è
la prima eroina femminista della storia del teatro. Giasone viene
schiacciato (Erika e Omar) dalla potenza della donna che non è né fragile, né
debole né tanto meno succube e passiva. E’ invece una guerriera pronta a tutto.
Ora sono scimmie alla catena, ora saltano e strillano come bertucce, ora le
urla di dolore del parto, il piacere del sesso si fonde con il pianto. Nicole dà prova, da Premio Ubu,
di contorsionismo, con una forza devastante mentre sposta e scaraventa le
testate del letto in ferro battuto, oppure di estrema dolcezza e delicatezza
quando, con pannolone e maschera da infante, alquanto inquietante, si muove di
schiena con le movenze di un neonato. Lei balla la danza del
ventre, lui con elmetto da guerriero, più simile a Sturmtruppen,
(gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere) canta Celentano, poi giocano con le iniziali
delle parole. Per lei l’alfabeto sono stilisti di
moda, Armani, Bulgari, per lui paesi del mondo,
Argentina, Bosnia. Il modo diverso di intendere il mondo. Medea si mette la
testata del letto sulle spalle e la volteggia come fossero
ali di aliante, la muove come mezzaluna in cucina, la piega di lato come timone
di nave, la ruota come lancio del martello, mentre per lui è taglia erba,
trattore e mitragliatrice. La donna viene racchiusa
nello spazio casa, i giochi adolescenziali sono finiti e l’uomo serra la bara-cassa-gabbia mentre l’uomo si masturba e lei si
punisce picchiandosi. Lei adesso esterna in greco antico, poi in tedesco ed
infine urla, come leonessa che ruggisce alla savana intera, “Ich bin Medea”. Medea ha
schiacciato l’uomo, ha relegato chi la voleva relegare,
si è ribellata. Adesso deve ancora combattere contro altri maschi, contro i
suoi figli, serpi cresciutele in seno. Come lupa con Romolo e Remo, a quattro
zampe allatta i due neonati, Emilio Vacca e Giuseppe Lanino,
splendidi giovani comprimari che si muovono come scimmie o cani prima succhiando
famelici e violenti divoratori dalle mammelle della madre poi azzuffandosi
nella ciotola-elmetto del padre. Animali con bisogni ed esigenze da animali. Uccidere per. Mangiare. Sopravvivere. I figli
diventano come il padre, vanno alla guerra con il braccio teso ed il passo
dell’oca, giocano passatempi che emarginano la donna, facendo divenire l’elmetto
palla da rugby o pallone da calcio. Accanto al letto di Medea e Giasone si alza
quello a castello dei due gemelli inseparabili, che sfocia nell’omosessualità, letto
usato anche come trincea. Estenuante e complessa, nonché
luminosa per intensità e bravura dei due, la coreografia appesi alle sbarre del
letto in spericolatezze circensi da veri acrobati, atleti e ginnasti. Molta
fisicità in questa danza ondeggiante dentro e fuori le sbarre del telaio del
letto, aggrappati alle assi in acciaio vorticano contorti
sospesi ad un filo sfidando la gravità. Caos calmo. I pargoli si fanno beffe
del padre anziano, insultano la madre che, dopo aver dispensato parole in
inglese, spagnolo ed arabo (grande preparazione della
nostra) li uccide soffocandoli senza però alcuna violenza, senza armi, senza
bisogno di sangue. E’ la madre Dio, è Medea Dea, che
dà la vita e la toglie. Medea è l’Universo, l’Inizio, il Big
Bang, è l’Attimo, la Partenza. Nell’ampio
spazio vuoto della mente, tra i rimorsi e le ferite della vita, Medea vaga nel
cimitero di maschere da infante, simili a Pisellino
di Braccio
di Ferro, (sembra una distesa di croci nei campo santo
di guerra americani) mentre un lenzuolo al centro della scena si innalza al
cielo come salvezza o cordone ombelicale. Il legaccio si scioglie e diviene
fantasma, vestito da sposa mentre Medea-Nicole,
sempre più impressionante e brava, esplode come trapezista in movimenti da
Tarzan al femminile. I figli con i burattini in mano che li rappresentano, una
delle parti più emozionanti dell’intero trittico, camminano doppi tra corpo ed
essenza, astratto e carne in miniatura muovendosi all’unisono. Medea si
riappropria dei propri figli (il finale di Emma Dante
in “Vita mia”) cullandoli nel drappo mentre un Giasone ammiraglio raccoglie le
maschere dei morti cantando un motivetto anni ’40: “Vivere senza malinconia,
vivere senza più gelosia”. Senza parole. Soltanto lunghi applausi di riflessione:
lo spettacolo 2006.
Voto
9