Presentazione Teatrino Giullare, Alla meta, 2007
Presentazione Teatrino Giullare, La stanza, 2011
Recensione Teatrino Giullare, La stanza, 2011
"The room" è la prima commedia di Harold Pinter. 1957, attualissima. Sembra di essere in uno di quei grandi
palazzoni, grigi, umidi, degradati, ma lottati, difesi e combattuti fino all’ultimo mattone dai suoi abitanti. Sembra vedere gli alveari occupati della
periferia di Roma, o Napoli, o meglio, anzi peggio, le case dell’Aquila (vedere
Draquila,
il documentario di Sabina Guzzanti), abbattuta prima dalla terra scossa e dopo da politicanti. Le baracche difese con i denti dagli sfratti
della polizia. Quel buco chiamato casa: siamo animali, dopotutto, e abbiamo un estremo bisogno di un luogo dove ammonticchiare ed immagazzinare la nostra memoria tattile e merceologica. Qui
si mangia pane e precarietà. Pinter è scomparso un anno e mezzo fa. E ci manca. Memorabile il suo discorso antibellico alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura ’05. “Nelle
sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e
spinge ad entrare nelle stanze chiuse
dell’oppressione”, la motivazione dei tipi di Stoccolma. Ecco. Scelta azzeccata
per i bolognesi Teatrino Giullare
che con “La stanza” proseguono la loro fervida e insistita e illuminata ricerca
sull’attore, sul suo mondo, sul suo alone di misterica materia.
Oppure sulla sua assenza, presenza asservita al testo, di supporto alla drammaturgia: i pupazzi del “Finale di partita” beckettiano
passando per i sipari-abiti di “Alla meta” di Bernhard, i pezzi di corpo sparsi di Koltes nella sua “Coco”. Ancora
avvolto, mai completamente disvelato, mai alla
luce del sole, l’attore accessoriato funge la finzione attraverso contenitori,
tagli, buio nero magico ed inquietante. Qui maschere gommose, ci giocano anche, profili e mezzobusto. Due attori per sei personaggi, che
hanno trovato il proprio autore. Una finestra e fuori un mondo sconfitto,
distrutto, poche persone in giro, comunque più vero e vivo rispetto agli scenari apocalittici, astratti e metaforici di Beckett. Un
microcosmo popolato da ombre che s’ingigantiscono, paure che s’affollano,
sicurezze che cadono, certezze che svaniscono. I due TG si muovono con
delicatezza, sospensione, tra i detriti ed i relitti pinteriani, ne esaltano quella forma che pare bidimensionale ma che nasconde un antro inaccessibile dietro una parvenza di
banalità, in punta di piedi disegnano, in questo caseggiato-casermone dai
confini fiabeschi e noir quasi castello delle streghe o La finestra
sul cortile hitchcockiana, con tratti lievi,
attraverso maschere appiattenti, l’insana e usuale e “normale” e accettata, la
paura della polis, che, dopo allarmi, grate, sbarre, guardie giurate, ronde
notturne, cani ringhianti, porte blindate e casseforti, comunque non passa.
Ancora una grande prova attoriale, rigorosa, leggera pastello, complice, anche divertente, seppur nel dramma. Basta un nome, una domanda insistita per aprire parentesi. Un’anziana coppia si è da poco trasferita in un nuovo quartiere. I rapporti sono da ricostruire, ognuno teme per la propria incolumità e si barrica all’interno dove, camino e scorte di cibo possono anche far tagliare i ponti con l’esterno. La casa è l’ultimo baluardo di resistenza, rifugio ed eremo dove rintanarsi, nel silenzio delle proprie convinzioni: i nemici fuori, il clan da proteggere (da quale mostro?) dentro. E pian piano, a suon di battute di una scontatezza disarmante di vita più
trascorsa e passata che vissuta, alla ricerca di pace e tranquillità che fa rima con immobilismo, conservatorismo e morte cerebrale,
le nubi aumentano, create da un immaginario che s’ingrossa a parole non supportato dai fatti, illazioni tendenziose diventano reali, mugugni,
recriminazioni, rimuginamenti che alterano la
percezione dell’attorno. Tu chiamala, se vuoi,
solitudine. L’ansia s’impenna intorno alla trincea da difendere, che ormai è
rimasta l’unica stabilità certa alla quale appoggiarsi nel grigiore e nella
miseria che si aprono a voragine e succhiando il resto. E quando qualcuno
abbandona, per qualsiasi motivo, la tana, la preoccupazione nell’alcova-bunker
cresce ed il rientro, il ritorno è visto e salutato in maniera trionfale: “Ce l’ho fatta a tornare”, come se là fuori infuriasse la battaglia campale. Perché cambiare, quando tutto va male? Potrebbe andare peggio. Per saperne di più: “Harold Pinter, Scena e Potere”, Roberto Canziani e Gianfranco Capitta, Garzanti.
Voto
8