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Teatrino Giullare
La stanza
Interpretato, costruito e diretto da Teatrino Giullare, traduzione di Alessandra Serra
Visto al Festival “Primavera dei Teatri”, Castrovillari (Cosenza) il 3 giugno 2010, in scena Il 4 e 5 marzo 2011 al Teatro Studio di Scandicci

 




                     di Tommaso Chimenti


Presentazione Teatrino Giullare, Alla meta, 2007
Presentazione Teatrino Giullare, La stanza, 2011
Recensione Teatrino Giullare, La stanza, 2011


"The room" è la prima commedia di Harold Pinter. 1957, attualissima. Sembra di essere in uno di quei grandi palazzoni, grigi, umidi, degradati, ma lottati, difesi e combattuti fino all’ultimo mattone dai suoi abitanti. Sembra vedere gli alveari occupati della periferia di Roma, o Napoli, o meglio, anzi peggio, le case dell’Aquila (vedere Draquila, il documentario di Sabina Guzzanti), abbattuta prima dalla terra scossa e dopo da politicanti. Le baracche difese con i denti dagli sfratti della polizia. Quel buco chiamato casa: siamo animali, dopotutto, e abbiamo un estremo bisogno di un luogo dove ammonticchiare ed immagazzinare la nostra memoria tattile e merceologica. Qui si mangia pane e precarietà. Pinter è scomparso un anno e mezzo fa. E ci manca. Memorabile il suo discorso antibellico alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura ’05. “Nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”, la motivazione dei tipi di Stoccolma. Ecco. Scelta azzeccata per i bolognesi Teatrino Giullare che con “La stanza” proseguono la loro fervida e insistita e illuminata ricerca sull’attore, sul suo mondo, sul suo alone di misterica materia. Oppure sulla sua assenza, presenza asservita al testo, di supporto alla drammaturgia: i pupazzi del “Finale di partita” beckettiano passando per i sipari-abiti di “Alla meta” di Bernhard, i pezzi di corpo sparsi di Koltes nella sua “Coco”. Ancora avvolto, mai completamente disvelato, mai alla luce del sole, l’attore accessoriato funge la finzione attraverso contenitori, tagli, buio nero magico ed inquietante. Qui maschere gommose, ci giocano anche, profili e mezzobusto. Due attori per sei personaggi, che hanno trovato il proprio autore. Una finestra e fuori un mondo sconfitto, distrutto, poche persone in giro, comunque più vero e vivo rispetto agli scenari apocalittici, astratti e metaforici di Beckett. Un microcosmo popolato da ombre che s’ingigantiscono, paure che s’affollano, sicurezze che cadono, certezze che svaniscono. I due TG si muovono con delicatezza, sospensione, tra i detriti ed i relitti pinteriani, ne esaltano quella forma che pare bidimensionale ma che nasconde un antro inaccessibile dietro una parvenza di banalità, in punta di piedi disegnano, in questo caseggiato-casermone dai confini fiabeschi e noir quasi castello delle streghe o La finestra sul cortile hitchcockiana, con tratti lievi, attraverso maschere appiattenti, l’insana e usuale e “normale” e accettata, la paura della polis, che, dopo allarmi, grate, sbarre, guardie giurate, ronde notturne, cani ringhianti, porte blindate e casseforti, comunque non passa. Ancora una grande prova attoriale, rigorosa, leggera pastello, complice, anche divertente, seppur nel dramma. Basta un nome, una domanda insistita per aprire parentesi. Un’anziana coppia si è da poco trasferita in un nuovo quartiere. I rapporti sono da ricostruire, ognuno teme per la propria incolumità e si barrica all’interno dove, camino e scorte di cibo possono anche far tagliare i ponti con l’esterno. La casa è l’ultimo baluardo di resistenza, rifugio ed eremo dove rintanarsi, nel silenzio delle proprie convinzioni: i nemici fuori, il clan da proteggere (da quale mostro?) dentro. E pian piano, a suon di battute di una scontatezza disarmante di vita più trascorsa e passata che vissuta, alla ricerca di pace e tranquillità che fa rima con immobilismo, conservatorismo e morte cerebrale, le nubi aumentano, create da un immaginario che s’ingrossa a parole non supportato dai fatti, illazioni tendenziose diventano reali, mugugni, recriminazioni, rimuginamenti che alterano la percezione dell’attorno. Tu chiamala, se vuoi, solitudine. L’ansia s’impenna intorno alla trincea da difendere, che ormai è rimasta l’unica stabilità certa alla quale appoggiarsi nel grigiore e nella miseria che si aprono a voragine e succhiando il resto. E quando qualcuno abbandona, per qualsiasi motivo, la tana, la preoccupazione nell’alcova-bunker cresce ed il rientro, il ritorno è visto e salutato in maniera trionfale: “Ce l’ho fatta a tornare”, come se là fuori infuriasse la battaglia campale. Perché cambiare, quando tutto va male? Potrebbe andare peggio. Per saperne di più: “Harold Pinter, Scena e Potere”, Roberto Canziani e Gianfranco Capitta, Garzanti.

Voto 8 

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