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Compagnia Scena Verticale
Dissonorata
Di e con Saverio La Ruina, musiche originali composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco (fiato dei Mandara Project)
Al Teatro Studio Scandicci 27- 28 febbraio 2007

 




                     di Tommaso Chimenti


Teatro Studio di Scandicci, Diversamente Parlando, stagione 2007
Scena Verticale, Dissonorata, 2007
Motus, Rumore rosa, 2007
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, presentazione
Studio Su Medea, regia di Antonio Latella, 2007, recensione
Gogmagog & The Playground, The Restaurant of Many Orders, 2007, presentazione
Gogmagog & The Playground, Ristorante dai tanti ordini, 2007, recensione
Giampiero Cicciò, Giovanna d’Arco di Borgo vecchio, di Gianni Guardigli, 2007
Compagnia Krypton, Picchì mi guardi si tu si masculu, 2007
Egumteatro, L’omossessuale o la difficolta’ di esprimersi, 2006


Se l’onore è passare inosservati e mimetizzarsi tra la folla fosca, in una tinta scura e oscura, se la dignità passa per l’accettazione silente infarcita di pregiudizi retrò religiosi, se la rispettabilità si misura con l’identificazione culturale a modelli preesistenti, se il decoro proviene, come medaglia da appuntarsi al petto o, più spesso, come marchio a fuoco da mostrare a quale clan appartieni, dalle miti pretese, dalla testa bassa come buoi, dal parlar poco, dal chiedersi ancor meno, allora la nostra disonorata, con una esse in aggiunta che fa Calabria, è stata giustamente punita per i suoi reati, per i suoi tristi peccati terreni. Si predica bene e si razzola male. La Ruina vuole e cerca da un decennio con la sua Scena Verticale di frantumare in macerie, il cognome non arriva mai a caso a stabilire un percorso di vita, di rompere muri i gomma e omertosi della sua terra, di scalfire, graffiandola, la patina di stantio, la coltre di polvere e calcare, di lava e cenere sedimentatasi sui rapporti interpersonali. Sulla vita che in molti casi è soltanto patimento e frustrazione, dolore, pena e angoscia. Come un parente che ha perso un caro nella tragedia dell’11 settembre, l’autore e attore scava a mani nude, unghie e polpastrelli come ruspe, bocca, parole e lingua come lanciafiamme, per bruciare lo strato di animalesco che ancora tortura generazioni di senza futuro, imbrigliate nel passato pece. Dietro di lui, non guarda mai verso il pubblico, un musicista che fa piangere i suoi strumenti. Il suo calabrese, sulla sediola in paglia, è dolce e ondulato come schiuma in una giornata limpida, anche se Castrovillari non è sul mare, diverso dal duro e appuntito, angolato e spigoloso, ruvido dialetto di Cauteruccio. Un grembiule fa casa, una gamba balla in un altalenante giostra sotto la seduta. Poco è permesso alla donna del sud, di tutti i Sud del mondo. Calabresi e siciliane, afgane e irachene, africane e sudamericane, cinesi e indiane. Il burka non sta nell’abito imposto ma nell’atteggiamento diffuso al quale uniformarsi. Muove le mani ricordando Davide Enia in un retroterra da Nuovomondo di Crialese. Il matrimonio è l’unica via di salvezza per passare dalla tirannia patriarcale a quella maritale. Padella e brace hanno lo stesso volto, le mani, il ghigno dell’uomo che qui è ancora, e soltanto, maschio, capo branco, iena. Torna alla mente il caso di Hina la ragazza pachistana di Brescia sgozzata dagli uomini della propria famiglia. Guardare le pietre per terra è il solo sistema per non farsi dare della “bottana” (qui senza l’appellativo “industriale” wertmulleriano), la famiglia (anche con la effe maiuscola) ancora di salvezza per tornare ad essere carne da macello (Carnezzeria) e perpetrare l’orrore e l’ingiustizia. Speriamo che sia femmina da queste parti è una bestemmia e una sciagura. Il senso di colpa mangia da dentro il fegato come l’aquila a Prometeo, la paura sottrae ogni gioia, e dove la voglia di vivere rincula nella minaccia di sopraffazione. Odio chiama odio. Ce l’ha insegnato Kassovitz. 

Voto 7 ½ 

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