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Maria Cassi
Concertino d’amore
Con Maria Cassi, alle musiche Marco Poggiolesi e Ferdinando Romano: un revival jazzato e pop che fluttua sul pentagramma
Al Teatro del Sale dal 1 all’11 settembre 2010

 




                     di Tommaso Chimenti


Maria Cassi, Concertino d'amore, 2010
Maria Cassi, My life with men and other animals, 2011


"Ma l’amore no, l’amore mio non può disperdersi nel vento della sera con le rose, tanto è forte che non cederà, non sfiorirà” (“Ma l’amore no”, Gigliola Cinquetti)
"Che cos’è l’amor, chiedilo alla porta, alla guardarobiera nera e al suo romanzo rosa che sfoglia senza posa al saluto riverente del peruviano dondolante che china il capo al lustro della settima Polàr” (Che cos’è l’amor”, Vinicio Capossela)
Con in bocca ancora i sapori organizzati dalle grandi mani del marito (Fabio Picchi, il “Garibaldi” come verrà definito poi dalla compagna-attrice), con le lenticchie e le patate, il pesce in umido ed il risotto con i fiori di zucca, con l’arcobaleno cromatico delle vongole piccanti, mentre in Piazza Santa Croce sta suonando Leonard Cohen, tra le cozze al limone ed il pollo arrosto e le patate in forno “unte e bisunte” come urla sincero il vocione da dietro i vetri della cucina a vista, dopo le eccitanti cialde e panna e l’aroma della trippa che scivola a far coppia con i pomodori gratinati, mentre il poster con il volto-simbolo di Sakineh, la donna iraniana che il regime ha condannato alla lapidazione per adulterio, sventola ed intanto ai campionati del mondo di basket in Turchia se la sono giocata proprio Iran e Stati Uniti. Ecco cos’è l’amore. In una lunga, semiseria, dialettica e (s)canzonata indagine sulle peripezie, le derive, gli afflati, le patologie, le devianze, del sentimento più nobile, dolce e traumatizzante. Maria Cassi ci mette il corpo, sempre movimentato e gutturale, gelatinoso e liquido nelle movenze esaltando le gag involontarie ed i tic dell’uomo della strada, ci mette la voce, affrontando un percorso sensoriale in una prosa a flash back, ad intuizioni, un mosaico di ricordi sotto forma di note (contrabbasso e chitarra in scena), pezzi della nostra storia, dei migliori anni della nostra vita, che ci riempiono di emozioni come onde e nostalgia a secchi nel cantare, tutti insieme, come un concerto all’aperto con gli accendini (non i freddi cellulari), come vedere il cinema al campeggio sulle sedie di legno che scricchiolano, in un unicum, in un solo respiro e fiato (forse, all’aglio). Gorgheggia, in nero mentre i due musicisti la seguono in bianco, la Patty Pravo di “Dimmi che non vuoi morire”. Ben presto si sfocia nella parodia, per dare il colpo di coda e ritornare alla musica, al suo testo, a quello che, inevitabilmente, ha rappresentato per ognuno di noi. E’ un tirare fuori dal conscio, seppellito dal tempo e dalla quotidianità, gettando l’amo nel passato, le parole non dette, i segreti pensati, i pensieri creduti sepolti. La Cassi ha questa capacità, di farti gettare la maschera, di aprire le porte, le ante intime, di farti lasciare andare, di farsi portare, di farsi cullare, di non sentirsi soli, isolati. Ma l’amore, si sa, non è soltanto panchine e apostrofi rosa. Ci sono le spine, che lo rendono splendido e doloroso al tempo stesso. Esce il sangue, quindi, sei vivo. Ecco quindi la gelosia e l’ossessione di Adriano Celentano nella sua “Una carezza in un pugno”. E’ un revival jazzato che fluttua sul pentagramma e le risate, piene, corpose, complici, consapevoli. La perdita stigmatizzata nel “E se domani” di Mina. Accordi vintage, buoni per tutte le età e stagioni, non soltanto falò e spiaggia. E’ dilaniante, tragica e lacerante la follia di Kurt Weill e Bertold Brecht ne “La ballata di Mackie Messer”, da “L’opera da tre soldi” (qui la Cassi gareggia, non sfigurando, con Ute Lemper e Milva). Poi, con un guizzo, si trasforma in Totò, in Benigni in un prisma scintillante di cambi di stato: ora è solida, ora liquida, ora gassosa. Sempre frizzante. Mai frivola. Ecco l’affabulatrice che ci racconta le feste in casa della sua adolescenza (viene in mente “Tapparella” di Elio e le storie tese), il primo bacio al quale incastona “Ragazzo triste”, la passione calda di “Guantanamera”, l’innamoramento che rende sublimi e stupidi e stupiti di “Parlami d’amore Mariù” e tutte “le canzoni che pensavi fossero state scritte proprio per te”. “Cara” di Lucio Dalla taglia le gambe, “Tu vò fa l’americano” (proprio questa estate l’hanno remixata) in gramelot partenopeo esalta la platea rendendola piccolo stadio, l’inno “Mi sono innamorato di te” langue a mezz’aria. Da sentire, da mangiare, da vedere, da ridere. Come la vita. E perché ridurlo chiamiamolo soltanto “concertino”?

Voto 7 ½ 

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