Maria Cassi,
Concertino d'amore, 2010
Maria Cassi,
My life with men and other animals, 2011
"Ma l’amore no, l’amore mio non può disperdersi nel vento della sera con le rose, tanto è forte che non cederà, non sfiorirà” (“Ma l’amore no”, Gigliola Cinquetti)
"Che cos’è l’amor, chiedilo alla
porta, alla guardarobiera nera e al suo romanzo rosa che sfoglia senza posa al
saluto riverente del peruviano dondolante che china il capo al lustro della
settima Polàr” (Che cos’è l’amor”, Vinicio
Capossela)
Con in bocca ancora i sapori organizzati dalle grandi mani del marito (Fabio Picchi,
il “Garibaldi” come verrà definito poi dalla compagna-attrice), con le
lenticchie e le patate, il pesce in umido ed il risotto con i fiori di zucca,
con l’arcobaleno cromatico delle vongole piccanti, mentre in Piazza Santa Croce
sta suonando Leonard Cohen, tra le
cozze al limone ed il pollo arrosto e le patate in forno “unte e bisunte” come urla
sincero il vocione da dietro i vetri della cucina a vista, dopo le eccitanti
cialde e panna e l’aroma della trippa che scivola a far coppia con i pomodori
gratinati, mentre il poster con il volto-simbolo di Sakineh, la donna iraniana
che il regime ha condannato alla lapidazione per adulterio, sventola ed intanto
ai campionati del mondo di basket in Turchia se la sono giocata proprio Iran e
Stati Uniti. Ecco cos’è l’amore. In una lunga, semiseria, dialettica e (s)canzonata indagine sulle peripezie, le derive, gli afflati,
le patologie, le devianze, del sentimento più nobile, dolce e traumatizzante. Maria Cassi ci mette il corpo, sempre
movimentato e gutturale, gelatinoso e liquido nelle movenze esaltando le gag
involontarie ed i tic dell’uomo della strada, ci mette
la voce, affrontando un percorso sensoriale in una prosa a flash back, ad
intuizioni, un mosaico di ricordi sotto forma di note (contrabbasso e chitarra
in scena), pezzi della nostra storia, dei migliori anni della nostra vita, che
ci riempiono di emozioni come onde e nostalgia a secchi nel cantare, tutti
insieme, come un concerto all’aperto con gli accendini (non i freddi cellulari),
come vedere il cinema al campeggio sulle sedie di legno che scricchiolano, in
un unicum, in un solo respiro e fiato (forse, all’aglio). Gorgheggia, in nero
mentre i due musicisti la seguono in bianco, la Patty Pravo di “Dimmi che non vuoi morire”.
Ben presto si sfocia nella parodia, per dare il colpo
di coda e ritornare alla musica, al suo testo, a quello che, inevitabilmente,
ha rappresentato per ognuno di noi. E’ un tirare fuori dal conscio, seppellito
dal tempo e dalla quotidianità, gettando l’amo nel passato, le parole non
dette, i segreti pensati, i pensieri creduti sepolti. La Cassi ha questa capacità, di
farti gettare la maschera, di aprire le porte, le ante
intime, di farti lasciare andare, di farsi portare, di farsi cullare, di non
sentirsi soli, isolati. Ma l’amore, si sa, non è
soltanto panchine e apostrofi rosa. Ci sono le spine, che lo rendono splendido
e doloroso al tempo stesso. Esce il sangue, quindi, sei vivo. Ecco quindi la
gelosia e l’ossessione di Adriano Celentano
nella sua “Una carezza in un pugno”. E’ un revival jazzato
che fluttua sul pentagramma e le risate, piene, corpose, complici, consapevoli.
La perdita stigmatizzata nel “E se domani” di Mina. Accordi vintage, buoni per
tutte le età e stagioni, non soltanto falò e spiaggia. E’ dilaniante, tragica e
lacerante la follia di Kurt Weill e Bertold Brecht ne “La ballata di
Mackie Messer”, da “L’opera da tre soldi” (qui la Cassi gareggia, non
sfigurando, con Ute Lemper e Milva). Poi, con un guizzo, si trasforma in Totò, in Benigni in un prisma
scintillante di cambi di stato: ora è solida, ora liquida, ora gassosa. Sempre
frizzante. Mai frivola. Ecco l’affabulatrice che ci racconta le feste in casa
della sua adolescenza (viene in mente “Tapparella” di Elio e le storie tese),
il primo bacio al quale incastona “Ragazzo triste”, la passione calda di “Guantanamera”, l’innamoramento che rende sublimi e stupidi
e stupiti di “Parlami d’amore Mariù” e tutte “le
canzoni che pensavi fossero state scritte proprio per te”. “Cara” di Lucio
Dalla taglia le gambe, “Tu vò
fa l’americano” (proprio questa estate l’hanno remixata) in gramelot partenopeo
esalta la platea rendendola piccolo stadio, l’inno “Mi sono innamorato di te”
langue a mezz’aria. Da sentire, da mangiare, da vedere, da ridere. Come la
vita. E perché ridurlo chiamiamolo soltanto
“concertino”?
Voto
7 ½