Maria Cassi,
Concertino d'amore, 2010
Maria Cassi,
My life with men and other animals, 2011
Si dice che ogni scrittore scriva sempre lo stesso libro, che ogni artista esegua sempre la stessa opera. In forme diverse ma sempre cercando di vincere, superare, esorcizzare le proprie paure, il proprio passato, le nostalgie, i traumi. Il palco dona questa possibilità e responsabilità, rende immortali e unisce in un abbraccio metaforico chi racconta la propria avventura collegandola, con fili trasparenti
di ragnatela emotiva, a chi sta ascoltando. Maria
Cassi ci regala, nel suo ultimo delicato spettacolo, già protagonista a
Parigi, Bucarest e New York, la sua autobiografia con lievi pennellate di
un’ironia bonaria, frugale, spizzichi di nostalgie casalinghe, morsi di ricordi
familiari, forchettate di un passato che qui, tra le luci soffuse, può liberamente ritornare e rivivere, sciolto dalle briglie del tempo e dato in pasto ad un pubblico a bocca aperta, affamato ed avido di sentimenti. Perché la Cassi è giocoliere con la mimica e con le parole, con i gesti delle mani, il gramelot
raffinato, i guizzi vocali, e costruisce, in questo “My life with men, and other animals” dal respiro internazionale, che ha debuttato all’ultimo festival di Spoleto, una sorta di
saga, di geografia d’albero genealogico tra le emozioni, gli aneddoti, le
curiosità piccole, marginali, tralasciabili, minimalia e minuzie e piccolezze che poi sono quelle che fanno una vita. Le virgole. La
normalità e non gli eccessi. Il sole e non le luci della ribalta. Ed allora ecco il rapporto d’amore con la madre che la
metteva in guardia, a suo modo duro ed inquietante, sui mali ed i pericoli
della vita fuori dalle protettive mura domestiche. I primi balli, che se ti
avvicinavi troppo al maschio brufoloso potevi rimanere incinta, gli amori, dai Beatles, passando per Bob Dylan, il sogno avverato New
York, fino al più terreno Picchi. Un congegno ad
orologeria, ideato assieme al disneyano Peter Schneider, che alterna in un flusso continuo lacrime, poesia, risate, in un’altalena di simpatia nel suo apporto semantico greco antico. Maria è lì, davanti a noi, con le sue facce,
che poi è una sola, la sua, quella che ha sempre messo, ci regala il suo tempo, le sue visioni che poi sono le nostre, Firenze in primis, le sue latitudini, le sue passioni semplici, naturali, vicine, tangibili, da toccare, assaporare. Senza perdersi nelle nuvole, con i piedi ben saldi a terra. Si apre come un orologio a cucù, come una bomboniera, come un carillon, una matrioska, la porta di casa di un’amica, l’alba, un sorriso, e tira fuori sorprese non di effetti speciali e raggi laser ma di quella leggerezza sana, pezzi di vita che bisogna “vivere per raccontarla”, come diceva Gabriel
Garcia Marquez. Vivere che non è solo respirare, ma mettersi in gioco,
soffrire, sbagliare, sporcarsi la maglietta Per non rischiare un noioso zero a zero. Una piece racchiusa in scrigni preziosi come respiri, in Canti, omaggio dantesco, nicchie da aprire
con rispetto, impreziosita da canzoni, “Stand by me” e “Mi sono innamorato di te”, “New York, New York” ed il motivetto che torna e ritorna “Obladì, Obladà”. C’è tutto in questa terapeutica apertura del mondo cassiano, in questo pensiero resoconto. Un inno alla vita. Per la Cassi si chiude un cerchio.
Voto
8