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  26/04/2024 - 18:58

 

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Brat
Ideazione e regia Salvatore Tramacere
Collaborazione alla regia Fabrizio Saccomanno, allestimento Maria Rosaria Ponzetta, movimenti Silvia Traversi, musiche Admir Shkurtaj, luci e suono Mario Daniele, Angelo Piccinni, cura del Progetto Franco Ungaro, con Guberinic Liljan, Ibraimi Ajnur, Kriziv Damir, Kurtisi Sead, Lazic Vukosava, Miladinovic Marija, Mladenovic Marija, Pasti Ana, Petrovic Darko, Petrovic Igor, Maria Rosaria Ponzetta, Redzepi Ajnur, Sabani Emran, Sulejmani Senad, Stojanovic Marko, Todorovic Danijel, Vulic Andjelka. Musicisti Giorgio Distante, Redi Hasa, Admir Shkurtaj
Produzione Cantieri Teatrali Koreja, Centar Za Kultur, Smederevo (Serbia). Visto ai Cantieri Teatrali Koreja, il 10 marzo 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Brat” se lo pronunci veloce, da slang di campetto in periferia newyorkese, i playground d’asfalto di canestri senza retina, sembra l’abbreviazione di “brother”. Non sembra, è proprio la stessa cosa. Brat uguale fratello. Ma non è un fatto di sangue. E’ più vicino al “compare”, al compagno di brigata, di ventura, di viaggio. Più una solidarietà e vicinanza umana, spazio-temporale, casuale. Brat è un progetto nato nel 2007 tra i leccesi Koreja, undici ragazzi d’etnia rom e sei attori serbi, più tre musicisti (il video che narra il viaggio è stato girato da Nico Garrone). Sul palco in venti schierati sul fondale sembrano le pedine di una scacchiera pronta a muovere o la marcia di braccianti e lavoratori iconografica del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Dal Salento è più velocemente raggiungibile l’Albania, e i Balcani, che arrivare nel Nord Italia. Le influenze ci sono, si sentono, sono vive e presenti. Alcuni anni fa un progetto similare fu il Cristo Gitano presentato al Teatro di Rifredi da Daniele Lamuraglia. Brat va visto più come percorso sociale che artistico. Dalla settecentesca trama inglese “Opera del mendicante” di John Gray, traslata nella teutonica “Opera da tre soldi” della premiata ditta Brecht-Weill, fino a questa piece negli anni Duemila. L’ambientazione è intorno a Belgrado. Un campo rom. Ma potremmo essere in qualsiasi periferia di degrado, roulotte, abbandono. Brat, oltre che in Serbia, è stato visto al Festival Italia di Napoli (defunto ormai) lo scorso anno, Andria e Milano. A Lecce è stato messo in scena all’interno del Teatro Romano. Nessuna pretesa ma un grande impegno ed applicazione per riportare, nella finzione scenica da palcoscenico, gli stereotipi, le credenze, i sospetti, le nostre convinzioni sul popolo rom. Una storia d’amore alla “Romeo e Giulietta” (che infatti non a caso Federico Tiezzi nel suo recente Scene da ambientò in un accampamento gitano), un sentimento contrastato dai genitori della sposa. “La grande forza dei rom è quella di non prendersi mai troppo sul serio”, spiega l’attore Fabrizio Saccomanno. Infatti Brat è carico d’ironia: la sposa è un ragazzo con velo trinato da altare, il padre della sposa (Pupi Avati è lontano anni luce) è un guappo ingioiellato, un piccolo boss del quartierino, con tanto di pelliccia maculata e bastone da rais dandy. Il suo incipit è ilare e, nella sua semplicità, tagliente: “Scusate, sono zingari”. A mettere le mani avanti verso il nostro benpensantismo borghese. Sono sgraziati e naif questi ragazzi, spontanei e veri, entusiasti di essere sul palco. I loro personaggi sono scalmanati, dagli abiti sgargianti, coloratissimi, confusionari. Il pappone-sfruttatore li educa alle “buone pratiche” per spillare più soldi possibile facendo leva sulla commozione da suscitare nei lacrimevoli cittadini (noi tutti), con vari trucchi: lo storpio, la tremarella, il cieco. Il capo rimane kantorianamente a fianco della scena, seguendola, approvando con il suo assenso, controllandola. Da clichè anche il capo della Polizia, ovviamente corrotto, si chiama Iena, uomo di panza uomo di sostanza, sigaro e cappottone da decaduta Armata Russa, che chiede la mazzetta, la tangente. Il padre-padrone (l’attore ha una bella intonazione, che emerge soprattutto nel commovente canto finale, toccante, melodico e straziante) non tollera che la figlia sposi un ragazzo rom e lo fa arrestare. I balli hip hop e tradizionali sulle musiche dal vivo gipsy (compresa la patchanka finale di battimano coinvolgente), rendono forse ancora più amara la condizione rom, sbeffeggiati, umiliati, irrisi oggi come nella Storia (solo per citare la deportazione e lo sterminio nei campi di concentramento nazisti) che riesce a sorridere davanti all’indifferenza, ai muri dell’intolleranza. “Siamo una specie in via d’estinzione”, chiosa il protagonista. “Se pensate che siamo noi il problema, va bene”. Da rifletterci.

Voto 8 

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