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  06/05/2024 - 11:15

 

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Le 5 rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
Regia di Arturo Cirillo, con Arturo Cirillo e Monica Piseddu scene Massimo Bellando Randone costumi Gianluca Falaschi luci Pasquale Mari musiche Francesco De Melis assistente alla regia Roberto Capasso, Compagnia/Produzione: Nuovo Teatro Nuovo di Napoli in collaborazione con AMAT
Il 21 dicembre 2007 a Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, dal 16 al 20 gennaio 2008 a Cagliari, Teatro Alfieri, il 18 Aprile 2008 a Fano, Teatro La Fortuna, il 19 Aprile 2008 a Rubiera, La Corte Ospitale, dal 22 al 24 Aprile 2008 a Bologna, Teatro Duse

 




                     di Tommaso Chimenti


La cultura omosessuale esce prepotente. Ma non siamo a Torre del Lago e nessun eccesso da Drag Queen sussulta di ridanciana memoria. Nessuna linguaccia fuori, nessun corpo discinto barbaramente volgare, nessun atteggiamento da vamp. Si ribalta il concetto di fiesta con i tacchi a spillo ed è solo l’accoppiata depressione- solitudine a tenere banco. Qui è il buio prima della parata, una sfilata che non arriva mai. Da un lato il frivolo dei vestitini aderenti, dei luccichini, della canzoni che infiammano gole e nostalgie, nel kitsch debordante di fiori finti, di tessuti fuori moda e ciarpame in quantità, dall’altra con l’illusione intrisa nel travestitismo in questi corpi dilaniati da una diversa coscienza che non è l’assemblaggio del maschile e del femminile ma una nuova identità che va a braccetto soltanto con i propri simili. Hanno soltanto nomi, che poi sono nomi di battaglia, inventati, scelti, epiteti e medaglie: non persone. Si sono uniformate a quello che altri uomini volevano che fossero: macchine da accendere e dopo usate spegnersi fino, forse, alla prossima volta. L’en travestì Arturo Cirillo (a tratti ricorda Gennaro Cannavacciuolo) , ancora una volta dopo “Le intellettuali” da applausi, riesce a sviare ora la fase canterina, adesso sciorina la parte noir a tinte fosche del testo di Ruccello. Qui le telefonate (“Se telefonando”) non sono beckettiane, cioè non è che vengano attese e non arrivano. Arrivano eccome, il telefono trilla ma dall’altra parte è sempre qualcun altro rispetto a colui con il quale si sarebbe voluto parlare. Ecco cosa manca: cuore, parola, comunicazione. Le persone del quartiere (Napoli? Italia? il Pianeta?) ci sono ma fanno solamente numero, chiuse dentro i loro forni crematori a forma di casa “e una radio per sentire che la guerra è finita”. Le amiche di una vita sono Patty Pravo e Mina, Romina Power e Ornella Vanoni, Milva. Voci, nulla più. Allo specchio passa una figura metà uomo e metà donna, cammina sul filo dell’ambiguità, folle e depressa, entusiasta che s’accende per un attimo e poi cade nel turbine del vortice del nero. Non c’è domani nel deserto di relazioni dove l’unica religione è “Cronaca Vera” e la Bibbia è l’oroscopo e la voglia di una vita “normale” che di normale non ha più nessun contorno così come la fotografia sul comodino senza nessun volto incorniciato. Il vuoto avanza fino al colpo di pistola. Il virus Kurt Cobain, il batterio Luigi Tenco è il vero serial killer.

Voto 7 ½ 

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