La degustazione. Nella parola c’è
già tutto. Si svegliano le papille. Sembra di assaporare l’aroma. Assaggiare
l’aria che scivola. Al solo pronunciarla si attivano ricordi e sensazioni, il
palato si prepara ed un leggero, lieve sorriso nasce spontaneo. Le dita della
mano destra cominciano a strofinarsi. Indice e pollice mimano
inconsapevolmente, mentalmente, il gesto del roteare del calice. Sembra
di vederla l’onda parabolica del getto rosso che s’insegue, s’insinua, si
rincorre sulle pareti del bicchiere con la bocca ampia. “Per farlo respirare”,
sa di bambino, di piccolo da accudire, coccolare, anche vezzeggiare. Il
contrario di soffocare, che è morte. “Posso resistere
a tutto tranne che al Brunello”,
parafrasando Oscar Wilde.
Degustazione, basta la parola. Si, leggermente sofisticata ma non artefatta. Come i gesti
che la compongono. Lo stare, il vedere scendere, il tendere la mano come ad un amico, l’attendere, l’aspettare, paziente ed
impaziente al contempo, l’annusare, il sorseggiare. La parola è fiducia. Brunello,
la parola è già arte. Il profumo che torna su come un’eco in una grotta. Bussa allo
stomaco risalendo fino al naso. Lì, ad occhi socchiusi, si aprono i cinque
sensi. Prendono campo, liberi finalmente di ampi ventagli, senza i soliti
ottusi livellamenti. Einstein avrebbe riferito: “Due cose
sono infinite: il Brunello e la stupidità umana”.
E si ritorna un po’ animaleschi, più pronti verso l’ignoto,
il perduto, l’inconscio andato, lo sconosciuto che c’era nei nostri antenati. Saper
usare il naso è un’arte, non s’improvvisa. “Solidità, il tuo nome è Brunello”,
direbbe oggi Shakespeare se avesse conosciuto
quest’angolo di Toscana.
Quel rosso che affiora dalla
terra e giunge, non per caso ma dopo molti passaggi strutturati, alle labbra sta riscaldando la bocca, arrossa le labbra,
scende seguendo la naturale direzione, la legge di gravità delle cose. Il vino
si può toccare, ha uno spessore, lascia tracce, è vivo. E per questo ha
un’anima. Rossa. “Siamo tutti uguali, se ci aprono
siamo rossi”, diceva Martin Luther King.
Non stiamo andando a bere. Stiamo andando a degustare. Verbo
elegante, di posatezza e sobrietà, a suo modo neutrale. Perché il vino ha due
anime che in questi luoghi, tra queste colline e vigne, collimano e coincidono,
vanno a braccetto senza attriti, in armonia. Calmo, pacato.
Ci vuole tempo: “Mi sono seduto sulla riva del fiume aspettando di vedere
passare una bottiglia di Brunello”, Confucio docet.
Rafforzando l’idea: “Quando lo stolto indica la luna, il saggio guarda il
Brunello”.
Il vino fatto con le mani, ruvide
come zolle e sensibili come il volo delle rondini, il vino nei fiaschi sui
tavolacci nei casolari, quello che non deve mai mancare con il companatico. Poi
c’è il vino da etichetta, le bottiglie, le annate, i marchi, i timbri, la
storia. Perché il vino si fa e non si fabbrica. E’ per quello che il corpo
gode, gioisce, a berlo. Si sente il lavoro. “Il vino è comunista”, mi diceva Bruno,
un anziano al bar del paese dove trascorrevo le vacanze. “Come la livella”,
rispondeva solerte Nello da dietro il bancone solleticando il bianco e nero di Totò. Ero piccolo e non
capivo. Perché in fondo “Il Brunello ha ragioni che il cuore conosce
benissimo”, contorcendo Pascal.
Voto
8