Honolulu baby
Maurizio Nichetti parla con Scanner
In “Honolulu Baby” si parlano un po’ tutte
le lingue, soprattutto l’inglese. E non ci sono sottotitoli...
Non credo che le battute in lingue
diverse dalla nostra arrivino a penalizzare il pubblico, d’altra parte non
capire qualcosa fa parte del gioco, oggi è così: conviviamo con diverse
culture, viaggiamo di più, e siamo costretti ad arrangiarci.
In “Honolulu Baby” torna
l’ingegner Colombo vent’anni dopo...
Nel film l’ingegner Colombo,
innamorato della moglie ma da lei trascurato, va a Melancias e non sa cosa
troverà, né la fine che hanno fatto i colleghi che l’hanno preceduto: lui
arriva in questo posto e scopre pian piano la particolarità locale, ma non ha
nessun tipo di malizia su questa situazione. Fino a quando non viene sedotto
per la prima volta in una fattoria non ha neppure collegato il fatto che tutte
le donne che incontra possano costituire un oggetto sessuale: in questo è molto
infantile. Come una persona ingenua che viene sedotta, a questo punto perde la
testa, accorgendosi che a Melancias ci sono 320 possibilità d’avventura.
Ma non si tratta di un film sul
classico harem: come è nata l’idea?
Sette anni fa due ragazzi,
co-sceneggiatori del film con me, sono venuti da me a Milano a portarmi un
soggetto. Non mi piaceva, ma loro erano simpatici e scrivevano bene, allora
li ho invitati a scrivere una storia per me, magari su uno che va in una città
delle donne. L’ho detto un po’ per scherzo, un po’ per provocarli: cercavo
di fargli capire che avevo bisogno di una stranezza. Loro sapevano che avevo
girato Ratataplan con un ingegnere assunto da una multinazionale ed uno
di loro, che è brasiliano, ha pensato che nel suo paese ci sono città molto
povere dove tutti gli uomini emigrano per cercare lavoro lasciando le donne a
casa. Un presupposto molto realistico: son tornati dopo un mese con tre paginette in cui
c’era scritto che un ingegnere veniva mandato a cercare petrolio in un paese
molto povero che si chiamava Melancias ed esisteva davvero nel Nord Est del
Brasile. Da quel momento lì a quando è stato fatto il film sono passati sei
anni e per almeno quattro abbiamo lavorato a non farlo sembrare un film
maschilista.
Dev’essere stata dura girare nel
deserto con un cast così numeroso.
Girare nel deserto con 320 donne
non è stata certo una cosa divertente, perché avevamo grosse difficoltà
logistiche: in mezzo al deserto, con un vento pazzesco, prima
di tornare in albergo la troupe e gli attori erano costretti a passare davanti
ad un compressore per tirar via tutta la polvere accumulata con l’aria
compressa. Le riprese, compresi gli spostamenti, sono durate in tutto dieci
settimane. E poi si tratta di un film complicatissimo,
perché ci sono 1.200 inquadrature in un’ora e mezzo di durata, il ritmo del
film è di un’inquadratura ogni quattro secondi.
Quali sono le innovazioni tecniche
utilizzate per “Honolulu Baby”?
Il film è stato girato in full frame
e quindi lavorato in digitale per ottenere un effetto cinemascope: sono quegli
effetti speciali che non si vedono ma cambiano il modo di fare cinema. E’ lo
stesso sistema adottato dai fratelli Coen in Fratello dove sei? e
da Sodenbergh in Traffic:
in pratica gli effetti speciali diventano utilizzabili anche per il cinema
d’autore. Un discorso a parte riguarda la post-produzione in digitale: noi
l’abbiamo fatta con la curiosità, lo stupore e il fascino della prima volta.
Abbiamo fatto quasi una campionatura di possibilità, non è che abbiamo scritto
il film sapendo tutte le cose che avremmo potuto fare: ma adesso che l’abbiamo
imparato nelle prossime sceneggiature ci potremo permettere delle grandissime
libertà.
Voto
7