Esce il primo album come solista di Giovanni Ferrario che si intitola Headquarter
Delirium ed è un lavoro da far tremare i polsi. Non si tratta semplicemente di
rimettere in bella copia la militanza decennale in una scena (i cui confini
sono stati oltrepassati da pochi musicisti nel nostro paese), ma di un racconto
personale e culturale che non sarebbe possibile senza le cicatrici del tempo.
Le quattordici tracce di quest’album pubblicato da Pocket Heaven
records, a label of Panoplie ASBL (Associazione culturale
Panoplie) e distribuito da Audioglobe, non sono contenibili in un solo,
conciso, ascolto, e non stiamo parlando di eclettismo, ansia da accumulo,
sprechi citazionisti, quelli fanno parte di un fast food globale che lasciamo
all’arroganza di chi il tempo vorrebbe accelerarlo consumandosi o cercando di farci
consumare dieci, vent’anni di discografia in due sessioni di download. Story of
your life trafigge da subito con quest’amore profondo per il songwriting di Lou Reed che torna come una metastasi per
tutto l’album come se fosse un dialogo privilegiato con una radice interiore
affrontata attraverso l’erosione, un gesto d’affetto o un insulto iconoclasta.
Non si tratta di un viaggio a ritroso o di una delle immagini della nostalgia,
è il progressivo inabissarsi della forma canzone nel delirio della visione che trascina
le quattordici tracce dell’album; già da New Car le
tastiere di Giovanni e il muro di fiati quasi bowiano
messo insieme da Enrico Gabrielli disegnano un
tracciato libero, un jazz senza standard intorno ad una struttura che
affettivamente ricorda le atmosfere più belle degli Stranglers scomposte da una furia
visionaria e improvvisativa. Anche quando si torna alla forma seduttiva di Elsewhere le diavolerie di Asso Stefana
e il violino di Nicola Manzan spezzano il guscio e invece di abbellire con lo zucchero
degli arrangiamenti generano aperture e lasciano sospese le intuizioni. La title track in un certo senso fa da spartiacque ed è un brano
nodale affetto com’è da un’elettronica espressionista che non si preoccupa
troppo del bello, del suono perfetto a tutti i costi e che fa pensare, almeno
per forza d’intenti, al John Cale di
Music for a New Society; un fantasma, quello di Cale che tra l’altro torna in
molte tracce e mi riferisco in particolare alla sperimentazione sulla carcassa
del blues che attraversa gli album meno conosciuti del musicista gallese,
capolavori di sintesi blues minimale come Helen of Troy o Honi
Soit; intendiamoci, questi sono solo strumenti della
parola, appigli che servono a chi scrive per raccontare un universo complesso
di suoni che in Headquarter Delirium supera queste e altre suggestioni. Si
prendano brani come Honeymoon in Tribeka, Holy Freebased Blues e la sorprendente Sea Song, sono momenti di
ricreazione decostruzionista, e se vi sembra una considerazione buttata li, provate
a mettere insieme il deserto, brandelli di Street Hassle, il jazz rock di Tom Verlaine, l’oscurità
degli anni ‘80 visti da quaggiù, la sperimentazione come forma della libertà e
provate a riconoscerli dentro di voi.
Voto
7 +
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