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Zoo
Regia Alessia Innocenti e Corrado Russo
Testo tratto dal romanzo “Zoo” di Isabella Santacroce, adattamento e riduzione Giovanni Franci. Con Alessia Innocenti, light designer Nuccio Marino, costumi: Micol Joanka Medda, Caterina Bottai
Produzione: Centro culturale mobilità delle arti. Visto al Teatro Magnolfi di Prato, il 27 febbraio 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Oche da ingrasso, squali da piscina, iene ridens piene di motivi, civette da spasso, cani a bocca piena, sirene da morirci se le vedi, mosche da merda, cobra alla catena, poiane sempre sugli stessi rami, faine alla corda, vampiri di mattina, camaleonti sempre troppo uguali e, amico, che ti piaccia o no, è così, lo zoo è qui”. (Luciano Ligabue, “Lo zoo è qui”).

Ci sono gabbie invisibili con sbarre talmente tangibili da soffocare, da reprimere, da ingoiare. Gabbie che, seppure la porta sia aperta, è impossibile lasciare, abbandonare perché quel senso di vergogna ormai ci è familiare, ci appartiene, il marcio è diventato consuetudine, il senso di colpa ci sorride allo specchio dopo il caffé. E’ lo Zoo nelle parole, lancinanti, distruttive, acide, taglienti, di Isabella Santacroce riportate da Alessia Innocenti prima zuccherina come un bon bon rosa, di tacchi da segretaria e sguardo d’occhialini. C’è una trasformazione in atto: è visibile, reale, e le parole, a vortice, turbinosamente, fanno il loro sporco lavoro. Ti prendono per mano fin giù nella botola di sentimenti colmi di crepe, stuccati più volte, senza fondamenta. Un processo che porta questa figlia, amata dal padre, ricambiato in un amore folle, morboso, edipico, quasi incestuoso, ed odiata dalla madre fin dal concepimento, a sfaldarsi, abbrutirsi, dopo la morte del genitore. E’ uno svestirsi degli abiti della convenzione per agghindarsi con quelli da cyber robot, manichino nudo futurista, di corpetto, parastinchi, busto, intelaiatura da tutù a ricordare una Giulietta degli Spiriti deformata. Rumori stridenti, come di macchine ingegneristiche e strepiti industriali, segnano da una parte il dolore che dentro mangia e si muove appuntito, dall’altro la costruzione del nuovo sé, un io più vicino all’automa senza pathos che scansa i sorrisi di facciata. Dalle perle alle bestemmie in una decostruzione di ciò che era per divenire, adeguatamente protetta dall’amore (perché l’amore fa male), essa stessa visione estetizzante della sofferenza martirizzata autoimposta. La Santacroce ricorda sprazzi di Banana Yoshimoto, la sua accettata tristezza dei movimenti goffi del presente. In questo lento scendere nell’abisso un’intensa, partecipata, piena Innocenti lascia la grazia ed affonda le unghie nella carne del patologico riuscendo a trovare ispirazione e materia: una crescita al contrario, una decelerazione verso il buio. Dal caldo al freddo, dal sentimento esposto all’astio covato incancrenito, attrazione e repulsione per un dolore-piacere che diventa unica fonte di vita in mezzo a una dolente tenerezza. La vera regia della piece sono le luci di Nuccio Marino che adesso inquadrano una coreografia di gambe e tacchi, un po’ gemelle Kessler un po’ nuoto sincronizzato tangato, ora tagliano ombre maledette che si stagliano a dividere la scena, a sezionarla come cadavere da obitorio nell’autopsia di sentimenti disperati. Immagini mirate e raffinate, costruite tra il corpo sulla scena e il suo negativo, rimangono impresse come l’urlo munchiano della Innocenti a testa capovolta, che emerge nel nero del fondale che ha le sembianze della testa della Medea trattenuta nella mano sinistra dal Perseo del Cellini. E’ una bambola rotta, una “ragazza interrotta”, ma Cappuccetto ed il Lupo sono interscambiabili, boia e vittima si specchiano nell’acqua stagnante di Narciso. E’ più faticoso uscire dalle gabbie aperte che rompere le sbarre chiuse a doppia mandata.

Voto 8 

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