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Luca Camilletti
La verità non basta - Tropico del Capricorno
Con Tessa Baldini, Pamela Bernardi, Matteo Brogini, Francesca Campigli, Giulia Comper, Massimo Conti, Ilaria Cristini, Anna Cudin, Anna Destefanis, Eva Viviana Di Giovanni, Emiliano Dini, Katiuscia Favilli, Ilaria Forzoni, Maria Caterina Frani, Andrea Galleni, Elisa Godani, Beatrice Innocenti, Linda Izzo, Alessandra Maoggi, Giulia Mannocci, Silvia Moneti, Marianna Pierozzi, Riccardo Ruscica, Laura Salvadori, Trudy Scroppo, Genny Steccone, Francesca Tritto, Francesca Uguzzoni. Progetto, realizzazione, regia Luca Camilletti, tecnico Marco Santambrogio, assistente, Sandra Garuglieri, maschera Francesco Givone. Produzione: Atto Due
Visto al festival Fabbrica Europa, Stazione Leopolda, Firenze, il 14 maggio 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Dal dialogo tra il vecchio (un anziano leonardiano, proprio nell’anno in cui l’icona di Fabbrica Europa è un Uomo Vitruviano ma capovolto ed a mani basse, quasi in forma di resa), gobbo, ripiegato su se stesso e con un bastone da santone, saggio o guru, ed il giovane, ormai in mutande, metafora e squallore dell’oggi, ed unto, non dal Signore ma dal viscido che alberga attorno e dal quale non sa sottrarsi, scaturiscono scintille d’incomprensione, lampi di Caos, benedetta confusione. Dialoghi sui massimi sistemi che, con l’ironia classica che contraddistingue Camilletti, sforano in un adolescenziale, ma alquanto nostalgico, ricordare il “concerto della vita”. Scendono così in campo Bob Marley, ed il suo concerto milanese dell’80, e Kurt Cobain, le trecce rasta e la marijuana versus il biondo maledetto ed il suicidio, il No woman no cry contro il Rape me, il One love contro The man who sold the world, il cercare la pace, ma sconfitto dal cancro, e l’autodistruzione fino alla scelta di farla finita. Alle pareti grandi animali che non mollano la presa: un’aquila, molto teutonica, che ricorda il simbolo dell’Albania, che a sua volta riecheggia schegge di Kinkaleri (collettivo formato proprio da Camilletti) e due tigri ligabuiane in posizione d’attacco, di sbrano, di squarcio. L’anziano, forse proprio perché ha meno tempo davanti a sé e sente che tutto sta sfuggendo come sabbia dalle dita, s’aggrappa, il giovane, più soft e docile, è mansueto. Parlano in playback, come se non li riguardasse, come se non fossero lì, come se non fossero loro i protagonisti. La parola centrale è “suicidio”. Ed è apriti cielo. L’anziano compunto ma irritato dà il via alle danze. Entrano una trentina di signorine in due pezzi e tacchi alti, come le ragazze che sul ring tra un round e l’altro comunicano con un cartello il numero del prossimo gong, che in ordine, in fila indiana, cominciano a tirare uova e soprattutto a sputare, copiosamente, con gusto e ribrezzo, religiosamente, come prendendo l’ostia, saliva ed acredine sul reietto, cane bastonato a capo chino, vergognoso senza ribellione, senza alcuna reazione. Si sfidano “Redemption song” e le schitarrate caustiche nervose e sparatissime dei tipi grunge di Portland (città dove vive l’animo inquieto dello scrittore Chuck Palahniuk; troppa tranquillità non rende felici) e la posizione di Camilletti esce sovrana negli scudi quadrati, come quelli che gli studenti mostravano nelle manifestazioni contro la Gelmini, che ricordano da una parte il “Tropico del Capricorno” di Henry Miller (dov’è il sesso emanato da quelle pagine?), che ha dato le suggestioni per questa quarta parte, dopo Byron, Joyce e Dostoevskij, del progettone-decalogo “La verità non basta”, e dall’altra riportano la frase “I hate myself but I want to die” (mi odio e voglio morire). Suicidio come fuga, ma anche desiderio dignitoso. Come Tenco. O Socrate. O Monicelli.

Voto 7 ½ 

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