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  16/04/2024 - 21:26

 

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La traviata
Musica di Giuseppe Verdi
regia di Franco Zeffirelli
Firenze, Teatro della Pergola 19, 20, 22, 23, 25 settembre 2004

 




                     di Tommaso Chimenti


Adamo ed Eva, Paolo e Francesca, Dante e Beatrice, Giacomo Leopardi e Silvia, il presidente Ciampi e la moglie Franca, Violetta e Alfredo.
Il connubio Verdi-Zeffirelli da i frutti ben sperati: platea gremita dei soliti noti, con le quattro file dei venticinque palchi gremiti e la piccionaia, curiosamente silente, affollata come Piazza San Marco a Venezia.
Ah, Venezia, teatro la Fenice, prima rappresentazione datata 6 marzo 1853.
“La Traviata” resiste da 150 anni.
L’orchestra sotto il palco dirige le danze: al centro del palcoscenico una grande giostra in plexiglass, vorticosa e labirintica dove dentro danzano damigelle come farfalle in tutù sotto vuoto che quasi volteggiando boccheggiano cercando la libertà perduta in quella teca esposta agli sguardi del pubblico, di riflessi e d’ombre, di doppi e trasparenze, di luci e di contorni sfocati come un parabrezza sotto l’acquazzone.
Come fiori sbocciano e cadono, s’aprono ed appassiscono, le dieci ballerine barby a carillon attendendo i cavalieri a molla per il valzer- festa stile Gattopardo di Tomasi di Lampedusa nel palco straripante di figure e colori.
La bellissima Violetta, di celeste e boccoli, Alfredo, alto e riccioluto, l’anziano Marchese.
Il menage a tre abbia inizio come nella migliore tradizione, lo struggente amore impossibile da una parte, l’assopimento e l’estetica imbarazzata da esporre in società dall’altra, in mezzo la donna, filo ed elastico tra le due terre di nessuno, cono d’ombra tra due luci, per diversi motivi, altrettanto allettanti ed abbaglianti.
Un lampadario centrale gigantesco ci porta tra i cristalli parigini, mentre i gradini neri della scena rievocano la scalinata della romana Piazza di Spagna, cuscini orientali drappeggiano e coronano la cornice.
“Croce e delizia” canta Alfredo, tutta colpa sua?, detta alla Vasco Rossi?
Tre atti: la preparazione delle scene e la presentazione della storia e dei personaggi in campo, il pathos nel secondo, dramma e lacrime, patimenti e pene, finale inequivocabile nel terzo.
Sembra che l’Amore abbia vinto sul passato, sull’onta del passato, sui denari del Marchese, con Alfredo che nel bellissimo monologo echeggia di “essere quasi in cielo”, nella sua piuttosto ferma e leggera presenza scenica, anche se bellezza da fotoromanzo in bianco e nero.
I sotterfugi, le bugie e gli inganni sono alle porte: la storia è nota.
Ma le lettere d’amore sono davvero così ridicole quando c’è l’amore come scrivono e cantano il duo atemporale Vecchioni- Pessoa?
L’addio si concretizza colmo di sensi di colpa e rimorsi con l’aiuto del padre d’etichetta e doppiogiochista borghese, moralista e perbenista.
La parte più struggente è come sempre la festa, dove gli umori del pubblico si ribaltano e cambiano bandiera e sponda: se prima la platea rumoreggiava in silenzio mordendosi le unghie per Alfredo, dopo la lite tra marmi e lazzi del party, le lacrime sono tutte per la povera Violetta umiliata con l’affronto del denaro lanciato all’ex amata in segno di disprezzo, ribaltando la scena con i dollari verdi di “Nove settimane e mezzo”.
La festa fa svolazzare molti “Ohhhh” tra i velluti pergolesi: domina il rosso, piena di luci e fiori ricamati, un carnevale di Venezia con punte di Rio carioca, maschere e coriandoli, stelle filanti, zingare sensuali dai passi sessuali, odalische e gitane con nacchere, ori e lustrini luccicanti in una scena ricca e barocca di rasi, kitch e patchwork; sembra di rivedere la festa ne “Il Borghese gentiluomo” con lo special guest del Mammalucco e del Sultano d’Oriente.
Mancano soltanto i fuochi d’artificio per completare l’opera, ecco anche i toreri ed il matador, che ricorda Joaquin Cortes che balla e struscia a terra alzando coriandoli come fossero polvere, molto vicino alla “Carmen de los Corrales” vista la scorsa stagione al Teatro Puccini, con scaglie di “Chocolat” e dello zingaro Johnny Depp, “Pirati” di Polansky
In questo clima spensierato da fine del mondo, arriva il cupo Alfredo e l’atmosfera cala della tomba, nell’abisso imo depresso caustico, fossa delle Marianne.
La malattia, la tisi, la solitudine dall’amato e dall’amante, la tosse mentre fuori impera il carnevale e la felicità mentre dentro è gelo e morte. “Ormai è tardi” dice Violetta, e forse Vasco si è ispirato nuovamente a Verdi.
L’abbraccio con l’amato ritrovato è la chiusura del cerchio, mentre lei, Rea vestale greca pallida si lascia cadere nel bacio più dolce dell’opera, mentre la musica accelera con l’archetto del violino che detta i tempi della commozione.
“Morire qui, non è da me, morire va bene ma non per te”, avrebbe cantato decine di anni dopo Renato Zero, ma stasera e sempre Violetta morirà per il suo Alfredo, per quella passione incalcolabile che resiste ancora, che appassiona più delle fiction, che esalta più di “Titanic”, che fa palpitare più di Hollywood che tutto riforma, copia e trasforma.
Il pubblico molto generoso ringrazia i protagonisti con cinque minuti meritati di sound battimano a tempo ritmato.

Voto 8 

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