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Roccu u stortu
Regia di Fulvio Cauteruccio
Teatro Studio di Scandicci
24 gennaio 2005

 




                     di Tommaso Chimenti


Altra prova d’attore per Fulvio Cauteruccio alla centesima replica del fortunato testo di Francesco Suriano, in platea al Teatro Studio di Scandicci per l’occasione ed il meritato festeggiamento di questo piccolo grande capolavoro contro ogni guerra.
Un cult del teatro contemporaneo, un must a livello di monologo penetrante, avvincente, a tratti delirante, sudato e marcato, denso e deciso, forte e lieve, pieno e passionale che Cauteruccio riesce pienamente a trasmettere.
Rocco, l’alter ego sulla scena di Cauteruccio, è un semplice contadino tirato su a olive e miseria, sbattuto senza troppi perché in prima linea nel bel mezzo di un conflitto contro un nemico che neanche sa della sua esistenza geografica.
Fulvio, già caratterizzanti e precise le sue interpretazioni ne “La tempesta”, il vigore di “Ico no clast” e l’instancabilità emotiva di “Ubu c’è”, ancora una volta, per la centesima volta, un traguardo raggiunto non da molte piece, produce risa amare e riflessione in questo periodo particolare mondiale che stiamo vivendo, in questa guerra globalizzata, quasi annoiata e stanca.
Il dialetto calabrese poi è un continuo schiaffo a mano aperta, un colpo basso, un pugno sferrato a nocche strette che ogni volte dilata e dilania, riducendo all’essenza non tanto del significato quanto alla musicalità aspra, sterzate tra lingua e palato a denti digrignati come la fame, come la terra, come il sole che spacca di rughe le facce.
I tre del gruppo“Il parto delle nuvole pesanti” stanno appollaiati su impalcature alle spalle della trincea che protegge il povero Rocco, quasi avvoltoi sulla morte del soldato, Dei cattivi che tutto vedono senza muovere dito, vere e proprie nuvole cariche di pioggia e tempesta di suoni.
Un tutto esaurito, la coda, pur riparata dalla nuova pensilina da Underground fiammante di neon e acciaio, lo stava a testimoniare con una lunga fila di prenotazioni, che sta a testimoniare la bontà del progetto che a distanza di anni ancora emoziona e riesce a strappare, anche in serate gelide, la gente fuori di casa, per portare davanti agli occhi l’orrore e la stupidità della guerra, la miseria di chi spara, si uccide e muore per un pezzo di pane, per una bandiera, di qualsiasi colore, che avvolgerà il suo feretro sotto un cumulo di terra fredda.

Voto 8 

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