E’ un Rigoletto sorprendente, intenso e, a suo modo
innovativo, quello che è andato in scena il 10 e 11 maggio 2008 al Teatro
Civico di La Spezia con l’orchestra e il coro
Carlo Alfredo Mussinelli, diretta da Piero Papini, la regia di Massimo Pezzutti, le scene e i costumi di Stefania Battaglia.
A fronte di una scarsezza di
mezzi purtroppo atavica per le produzioni periferiche, per la realizzazione di
questo Rigoletto c’è stata una determinazione e una freschezza espressiva che
dovrebbe fare pensare quelli che vedono la lirica solo come citazione di un
pensiero italiano d’antan, quelli che (al di là delle solite ribalte privilegiate) sottovalutano e mettono in crisi di identità e di
budget la creatività lirica di oggi.
Figlia del concorso lirico
internazionale “Giovanni Pacini”, giunto
quest’anno alla terza edizione, (tenutasi al Teatro Dante di Campi
Bisenzio con il grande baritono campigiano Rolando
Panerai in veste di Presidente della
giuria), allo sforzo
produttivo dell'Associazione Culturale “C.
A. Mussinelli”, sostenuta dal contributo della Fondazione CARISPE nell’ambito
della programmazione di “Progettomusica” e dell’entusiasta impegno dei suoi artefici, questa operazione ha
colpito al cuore il pubblico ligure (in
realtà non solo) e ha meritato gli oltre 5 minuti di applausi che nella due
rappresentazioni sono sbocciati, irrefrenabili. Convinti.
Una scommessa vinta. Con talento, grazie alla verve
registica e scenica. L’edizione spezina di Rigoletto ha fatto
scoprire, accanto all’interpretazione sicura dei solisti professionisti, due
voci interessanti scaturire dal concorso. Due future protagoniste delle
ribalte liriche
(visto l’intensità dell’interpretazione glielo auguriamo) come la
soprano turca Pervin Cakar (Gilda) e la mezzo soprano torinese Margherita Settimo
(Maddalena e Giovanna).
Da sottolineare l’apprezzabile esecuzione dell'orchestra diretta, con chiara incisività di disegno e vigilanza espressiva, dal Maestro Piero Papini. E l'efficace prova del coro.
Il resto (e non è poco) l’ha fatto la determinazione di un manipolo di creativi, che ha voluto portare alla ribalta questo progetto,
con nuove idee e un modo di rileggere il melodramma attuale, fluido e allo
stesso tempo assolutamente in linea con la struttura dell’opera.
Ottima l’intuizione della poliedrica scenografa Stefania Battaglia
di risolvere il sapiente incastro di spazi interni ed esterni, di
luoghi aulici e rustici della scrittura verdiana, declinandoli in un dispositivo scenico non
convenzionale, basato su un sistema di elementi modulari, polivalenti (e
semoventi), in grado di condensare e traslare in segni essenziali ambienti e
atmosfere. Sorta di stazioni sceniche in cui si incardinano
le corrispondenti stazioni drammatiche della livida vicenda e offrono al
regista Massimo Pezzutti il destro per dirigere i cantanti in un percorso non
scontato, logico e forte che ha scavato le emozioni, esaltato il pathos, irriso
ogni tentativo banalmente naturalistico
di vivere il plot. Filtrando e prosciugando fino a scolpire con mano sicura il
cuore emotivo del dramma, quel fatale incalzare degli eventi che travolge l’innocenza ingenua di Gilda, facendone la vittima sacrificale, Pezzutti
ha proposto una messa in scena non usuale, che ha il pregio di cementare lo
scorrere aspro e rapido del racconto intorno alla sostanza tragica che balena
dalle note verdiane, favorendo un efficace e vibrante rapporto tra palcoscenico
e orchestra.
Fra le scelte indovinate (e
originali) di Pezzutti ci ha colpito l’intento di evidenziare (e sottolineare) la conoscenza biblica fra il Duca di Mantova e
Gilda (la figlia di Rigoletto), tramite una macchia rossa che segna il suo
candido vestito di vergine, una volta riconsegnata alle braccia del padre dopo
il rapimento. L’esito fatale dello stupro sarà ulteriormente rinforzato nel III
atto dalla scelta registica di fare trafiggere l’amante - vittima da uno Sparafucile, armato
non del suo pugnale, dimenticato nella stanza ceduta al riposo del Duca, ma
della spada stessa di cui il tiranno
libertino si è spogliato, per abbandonarsi ai piaceri di Maddalena.
Particolarmente avvolgente e suggestivo
anche il gran finale che, invece di far culminare la storia con l’ultimo
abbraccio di Rigoletto alla figlia agonizzante, prosegue di qualche fotogramma,
schiudendo in campo lungo, con un tableau di solennità neoclassica, il carminio patibolo
del Conte di Monterone.
L’immoralità del potere riassunta nel tragico destino delle sue vittime. La maledizione, così come la
vendetta che si ritorcono su chi le ha ordite. L’inutilità della
ribellione e l’inevitabile ritorno all’ordine.
Un epilogo che propone una lettura del capolavoro verdiano al di là della
patetica storia di amore e morte e consona piuttosto al senso espresso da Victor Hugo nel dramma Le roi
s’amuse che ispirò il musicista.
Questo Rigoletto che, ci
auguriamo venga presto ripreso e proposto in tour, è insomma
sicuramente illuminato da sprazzi di ingegno tipicamente italiano, da
professionalità e da impegno. Un lavoro sezionato e risolto anche nei suoi lati
più oscuri, che aderisce a quell’urgenza comunicativa che Giuseppe Verdi ha saputo infondere alla sua prima opera della trilogia popolare.
Voto
8