Bisogna dare atto a Adriano
Milani di riuscire da anni ad avere un canale
artistico preferenziale nei confronti della Russia e delle compagnie teatrali
provenienti da Mosca e dintorni. Infatti Milani, dal 1990 al ’95, è stato uno degli attori
della compagnia Derevo,
proprio in questi giorni, 14, 15 e 16 febbraio, in prima assoluta ed in
esclusiva per l’Italia al “Jack and Joe Theatre”, in via Pablo
Picasso a Cerbaia, anche il nome della strada forse non è un caso, in scena con
il nuovo lavoro “Ketzal” a cura della nuova generazione degli attori-
atleti- acrobati del gruppo che miscela teatro e danza contemporanea con
dolcezza, sagacia, acidità, irruenza e gestualità carica di significati. Prima
la compagnia, nel corso degli anni ’90, si era stabilita a Praga per poi
trovare un appoggio artistico a Greve in Chianti dove ha dimorato per due anni prima di capire che nella nostra
regione e penisola lo splendido lavoro innovativo dei russi non era ben accetto
e degnamente accolto. Adesso la sede di lavoro è stata fissata in Dresda, anche
se la provenienza dei componenti è principalmente San
Pietroburgo con alcuni innesti europei.
Molti i premi vinti in
carriera tra i quali spiccano i “Fringe First” di Edimburgo, ed altri riconoscimenti in Germani, Francia,
Messico. Una compagnia molto giovane, dai 24 ai 30 anni l’età dei suoi sette componenti, per una sceneggiatura molto fisica, sudata,
impegnativa, muscolare.
Corpi quasi nudi, toraci ed addominali gonfi per gli uomini, bellezza nordica gelida
ed algida per le due bellissime interpreti, figure sinuose e longilinee,
perizoma color carne a coprire con un velo le parti intime, capelli
rasati da militare. Un gruppo che dopo Cerbaia, il piccolo ma
interessante progetto del “Jack and Joe” era esaurito in tutti i suoi posti,
farà tappa addirittura in Cina ed in Giappone, mentre in Italia proprio non
riesce a sfondare ed a trovare spazi, luoghi per esibirsi, un terreno fertile
per promuovere e proporsi. “L’Italia è arida” commenta con tristezza Adriano.
Ed è un peccato per i molti che non potranno godere della
fantasia, della meraviglia delle danze, delle lotte, dei corpo a corpo stile
capoeira, dei salti, degli aggrovigliamenti, delle mani e delle gambe mosse con
impazienza e forza terribile e temibile, della potenza espressa, della voglia
energetica di dire, di esserci, di mostrarsi nel pieno e completo valore.
Un progetto ad episodi che intende ripercorrere ed
affrontare il rapporto tra l’uomo ed il divino partendo dal mito atzeco
del Dio Quetzalcoatl, la divinità del Messico precolombiano, simbolo di
morte e resurrezione, un serpente piumato principio cosmico della dualità: ciò
che striscia e ciò che vola riuniti in uno stesso simbolo. La musica alta, quasi da colonna sonora strumentale
elettronica di un cartone animato, riempie prima il foyer,
dove scorre la grappa per il freddo e per solidarietà con i sovietici. Corpi
glabri e pallidi, bianchissimi sullo sfondo nero, occhi di ghiaccio
imperscrutabili, chiare le mani, argentati i movimenti lesti, veloci le
magrezze esposte nelle danze tribali aborigene, nelle movenze di cani rabbiosi,
allupati, arrabbiati ed allampanati, nel contorcesi e
gattonare alla Smigol del Signore degli Anelli.
Sul fondo una struttura in ferro con gli uomini
stipati, costretti, chiusi, recintati nei loro ululati. Uno spettacolo muto,
un’ora circa la durata.
Gabbie aperte di scimmie da zoo, deportati, esseri
informi che si contorcono come serpenti con la musica ossessiva tecnologica,
tetra ed industriale picchia sui bassi e lascia poco spazio nelle viscere.
Snodabili
nel lager, esseri da esperimento, quasi spermatozoi che cercare la via per
rientrare nell’utero nei loro movimenti fluidi, nell’ultima scena dove allagano
il teatro e in una furiosa, giocosa e dance in trance
metafisica schizzano con le gonne impregnate di acqua il pubblico delle prime
file.
Voto
7